Da ildomaniditalia.eu riprendiamo e pubblichiamo l’articolo di Giuseppe Fioroni.
Considero una circostanza davvero felice la partecipazione a questa marcia di Barbiana nella veste di nuovo ministro della Pubblica Istruzione. È la mia prima uscita pubblica e farla qui nei luoghi di don Lorenzo Milani, mi sembra davvero beneaugurante e soprattutto impegnativo. La mia generazione non ha un ricordo diretto di don Milani, come non lo ha del Concilio e di tutto quel movimento che accelerò il passaggio degli anni “sessanta”. Quel tratto di storia, però, costituisce per tutti, e quindi anche per me, un “luogo” dalle fortissime valenze simboliche. E certo non mi sfugge che proprio qui a Barbiana, siamo nel cuore di quel decisivo passaggio di una storia che ha caratteri di universalità e che il tempo non scalfisce, ma continua ad avvalorare.
Di don Milani e, soprattutto, di “Lettera a una professoressa” si è scritto moltissimo. Siamo, infatti, di fronte a quei giacimenti di memoria storica che non invecchiano mai, anche se a non pochi fa comodo fare finta di non avvedersene. Ed è la prova vera della vitalità di queste memorie, come del resto i lavori del concorso bene hanno testimoniato. Noi non siamo di fronte ad un cimelio nel quale i ricordi si racchiudono dopo avere perduto gran parte della propria energia iniziale. Ricordi, insomma, non più capaci di suscitare interesse per il futuro, ma solo o al massimo, utili per scrivere una storia che si risolve negli eventi che l’hanno costituita, e che ormai è incapace di rigenerarsi. Noi oggi siamo di fronte ad un insegnamento che pur segnato dal tempo, conserva tutta intera la propria carica di profezia; e certo non è retorico affermare che oggi il messaggio di Barbiana fa pensare e conserva integra quella inquietudine che, quaranta anni fa, la propose laicamente all’attenzione di tutti.
Alla metà degli anni sessanta l’Italia viveva il culmine di quello che allora fu chiamato il “boom economico”. Tra il 1950 e il 1964, il nostro Paese aveva raddoppiato il reddito netto per abitante in termini reali. Un risultato che prima si era potuto realizzare solo in novanta anni, in pratica dall’unità d’Italia del 1861. Eppure nel pieno di quel processo di evoluzione, il benessere non veniva equamente ridistribuito. Insieme all’accrescimento economico e finanziario, si accompagnavano fenomeni di sofferenza e di esclusione. Nacquero e si accrebbero in quegli anni i disagi delle periferie metropolitane invase dagli immigrati del sud, e nelle campagne restarono ampie zone non raggiunte dal miracolo economico, dove la fatica delle opere agricole e dell’allevamento, non garantiva alle famiglie un futuro di grandi speranze. Barbiana era, appunto, uno di quei luoghi di fatica e di vita difficile. Un contesto che oggi facciamo qualche fatica a immaginare, ma che – come vedremo – poneva problemi che seppure per strade diverse, stanno tornando nel mondo di oggi.
Ed ecco il primo insegnamento di don Milani: guardare alle cose nascoste; andare oltre la banalità dell’evidenza. E chi avesse voglia di rileggersi (o leggere per la prima volta) le 160 pagine della lettera dei ragazzi di Barbiana, potrà agevolmente capire questo atteggiamento di svelamento della realtà. Gli esempi sono moltissimi e nella trama del libro appaiono con limpida evidenza, denunciando la perpetuazione di quei percorsi di esclusione sociale che per tanti decenni hanno attraversato la scuola e il mondo della formazione e che dopo un certo accanimento controriformatore degli ultimi anni, si ripropongono in forme antiche e nuove.
Ancora oggi, nel nostro Paese, decine di migliaia di ragazzi ogni anno escono dalla scuola media senza aver conseguito il titolo finale, esclusi quindi da ogni possibile proseguimento formativo. Mentre oltre un quarto dei giovani continua a non conseguire né diplomi né qualifiche professionali. Un fenomeno dimenticato anche a causa delle sofferenze umane e sociali spesso connesse ai processi dell’immigrazione. Ed è un punto sul quale è mio fermo proposito intervenire con politiche adeguate perché in nessun modo la scuola sia un luogo di esclusione. La scuola è di tutti e per tutti e a questo principio fondamentale non è possibile derogare.
E siamo ad un secondo decisivo insegnamento che viene dall’esperienza di Barbiana: non lasciare indietro nessuno. E non solo per quella pietà che in una società segnata per tanti aspetti dall’empietà è certamente una laica e nobile virtù. Ma per un interesse reale che comprende, ma supera i sentimenti. Parlo dell’interesse della Repubblica a formare il maggior numero possibile di giovani ad impegni di vita e di lavoro degni di essere vissuti, e tali da costituire una base di certezze umane e produttive per il futuro del nostro Paese. I ragazzi che i borghesi non volevano, così si legge nella “Lettera”, invece devono trovare i motivi e godere dei privilegi necessari per restare e realizzare il successo formativo superando le difficoltà.
“L’abbiamo visto anche noi – dicevano i ragazzi di don Lorenzo – che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”. Questo dovrà essere anche il nostro approccio per favorire l’inserimento dei diversamente abili.
E qui l’indicazione è chiarissima e vincolante certamente per chi ha la responsabilità generale della scuola. Non solo per ridurre il fenomeno della mortalità scolastica, secondo una pura logica di numeri, ma nel senso più sostanziale di dare davvero a tutti quella formazione che è indispensabile per un pieno inserimento sociale, per il quale è altrettanto evidente che occorrono sinergie nuove tra i vari organi di governo centrale e locali, e, soprattutto, un rimotivato coinvolgimento tra pubblico e privato per creare le possibilità di incontro tra il sapere e la produzione della ricchezza e dei servizi. Un coinvolgimento che dovrà vedere il sistema educativo protagonista attivo e senza incertezze.
Chi sale a Barbiana, poi, non può non tornare senza un altro importante insegnamento: il no all’indifferenza. Si è scritto direi fino alla noia del significato di quell’I care che campeggia nel locale della scuola. È vero, la vera cifra che tante volte distingue tra loro le persone, è proprio questa caratteristica immateriale, capace di trasformare un gesto qualsiasi in una azione significativa. Possiamo anche nutrire dissapori tra di noi, pensarla diversamente su una o più questioni, anche decisive; ma se le scelte “ci interessano”, potremmo sempre trovare un terreno di confronto che dia senso alle parole e alla volontà che dietro di esse si manifesta. Come accennavo prima, l’indifferenza dei borghesi cui alludono tante pagine della “Lettera”, è diversa da quella indifferenza che noi oggi sperimentiamo. Se prima l’indifferenza nascondeva in sé stessa una forma di insofferente spregio per le classi inferiori (sentimento ingenuo oltre che scellerato); oggi essa, oltre a quello, si colloca in tutti quei territori dove per tante ragioni l’uomo tende a ridurre i propri comportamenti ad una banalità opaca sulla quale la luce dell’etica civile non riesce più a filtrare per illuminare le coscienze. Ed ecco allora che a quella citazione inglese i care, possiamo dare oggi un significato più pieno. Essa, infatti, è la formula di un invito ad essere pienamente uomini. Essa, in definitiva, indica la necessità di un “nuovo umanesimo”.
Le culture del “Novecento” hanno prodotto tante dottrine politiche e, quindi, forme di umanesimi contraddittori, come ha ben detto il filosofo De Lubac il quale ammoniva che: “L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano”. E la storia del “secolo breve” con le sue stragi ne ha dato tragiche testimonianze. Ma attenzione, la fine delle ideologie non ha avuto meccanicamente come conseguenza la fine della disumanità. Le nuove povertà dei paesi industrializzati, le crescenti divisioni tra i paesi ricchi e paesi poveri, le oltre centoquaranta guerre che ancora si stanno combattendo nel mondo anche con l’empio impiego dei bambini-soldato, la crisi ambientale e tanti altri fenomeni tutti preoccupanti, ci dicono che gli esiti della modernità da soli non sono in grado di garantire un futuro di pace degno di una umanità riscattata dalle guerre e dalle ingiustizie. Ci dicono cioè che dobbiamo incontrarci per riscrivere insieme le tavole di un’etica condivisa che ridia ragioni di speranza e di crescita all’umanità. Tanti fatti, oltre a quelli appena segnalati, ci dicono pure che la costruzione di un umanesimo vero e di pace è impegno difficilissimo. Ma non impossibile. E per costruirlo don Lorenzo ci aiuta con il suo generoso e intelligente esempio, a partire da quella scuola che attraverso il suo impegno ha dato la parola ad una povertà che ne era priva, afona. E anche oggi dobbiamo ridare la parola a chi l’ha perduta insieme alla voglia di comunicare, di parlare; a chi, nella frammentazione del presente, ha perso la fiducia di poter divenire protagonista della propria vita. E su questi valori, ve lo assicuro di cuore, orienterò il mio impegno di governo, come ministro dalla scuola di tutti, perché questo e non altro vuol dire l’espressione “pubblica istruzione”.
Con un’ultima notazione che qui a Barbiana è necessaria: c’è una terra di mezzo tra i grandi apostoli della solidarietà e quella variegata della politica. C’è uno spazio dei profeti ed è una patria senza confini. Bene, noi sappiamo che don Milani l’abita ancora e ci aiuta sempre con l’esempio della sua missione religiosa, ma anche e soprattutto civile.