Dal Riformista riprendiamo e pubblichiamo un intervento di Giuseppe Fioroni in occasione del decennale della scomparsa di Giulio Andreotti
di Giuseppe Fioroni
La messa in onore di Andreotti, a dieci anni dalla scomparsa, si è celebrata oggi in Santa Maria in Aquiro, porzione di un complesso monumentale identificato con il tempio voluto da Adriano in memoria di sua suocera Matidia, poi deificata al pari dell’imperatore. Andreotti vi si recava periodicamente a visitare insieme ad altri, sotto la guida di un sacerdote, gli orfanelli ospitati in un’ala del palazzo. Lo ricordava spesso, anche lui orfano di padre, contraddicendo lo stereotipo del politico freddo e controllato, senza emozioni.
A me dava sempre l’idea, in occasione di incontri riservati, che fosse più “umano” di tanti altri, certamente non al suo livello per carico di potere e responsabilità. Una volta mi volle vedere perché al congresso di Maiori, nel 1984, avrei dovuto candidarmi alla guida del Movimento giovanile del partito. Mi voleva bene. Non ero, tuttavia, in condizione di accettare: stavo per laurearmi e mi attendeva una carriera di medico universitario alla Cattolica di Roma. “Fai come vuoi – disse con una punta di delusione – ma ricordati che il treno passa solo una volta”. In realtà, appena finiti gli studi, fui catapultato alla guida di Viterbo: ero entrato in Comune non immaginando di fare il sindaco, ma solo il consigliere al servizio della mia città. In effetti sono stato trascinato dalla politica. Devo dire che quell’esperienza la ricordo con emozione, anche per l’aiuto che mi veniva da Andreotti a sostegno dello sviluppo di Viterbo come città della cultura, aperta
sul piano delle relazioni internazionali. A distanza di tempo venni eletto alla Camera – non era affatto scontato – e fui solerte a chiedergli udienza. “Lo so che vuoi dirmi, il treno è passato una seconda volta”.
Ecco, Andreotti aveva il dono di una memoria formidabile. Mi dispiace leggere, fortunatamente meno oggi di una volta, commenti e giudizi che graffiano con violenza l’immagine di uno dei più grandi uomini di governo del Novecento. Lo si è accusato di fatti e di misfatti, oltre ogni misura, con ardore inquisitorio. Anche Moro, alla luce di queste accuse, sarebbe andato incontro alla sua triste fine per il cinismo di Andreotti, avendo agito da presidente del Consiglio con imperdonabile distacco umano e politico, fino a coprire le manovre di poteri occulti. Non è vero. Mi è stato possibile accedere a una documentazione sconfinata in qualità di presidente della Commissione bicamerale d’indagine “Moro 2” e mi sono fatto il convincimento che il ruolo svolto da Andreotti non sia stato deviato da interessi esterni o superiori, come recita una malevola vulgata. Andreotti fu colpito dolorosamente dalla vicenda Moro e visse quei 55 giorni di follia, con l’epilogo drammatico di via Caetani, nella consapevolezza di dover fronteggiare un attacco
formidabile allo Stato democratico. Nella sua vita ha operato ininterrottamente nelle istituzioni.
È stato, secondo appunto i detrattori, un uomo di potere, anzi un uomo attaccato al potere. Eppure
nella Dc ha saputo stare anche in minoranza, ad esempio quando con tutta l’area Zac (sinistra del partito) si oppose nel congresso del 1980 alla svolta del Preambolo, destinata a interrompere la politica del confronto con il Pci. In fondo concepiva la duttilità e la mediazione, come gli aveva insegnato il suo riconosciuto maestro, Alcide De Gasperi, strumenti al servizio della politica e non espedienti per aggirare principi e regole. Fu così che nel 1979, per aver preso impegno con Berlinguer all’inizio della stagione della solidarietà nazionale – impegno che consisteva nel prevedere che non ci fosse altra formula in Parlamento dopo quella organizzata con l’intesa dei comunisti – chiese ad alcuni senatori di votare contro il suo governo, per andare alle elezioni anticipate. Quei senatori erano andreottiani, uomini della sua corrente.
Nella sua prolungata azione di governo, più volte da Palazzo Chigi, mise in campo misure di sano riformismo: poca retorica e molti fatti. Fece scelte coraggiose, assumendosi la responsabilità dell’adesione
allo Sme e poi al Trattato di Maastricht, per un lucido disegno di fedeltà all’europeismo. Prudente sulla riunificazione delle due Germanie, non esitò a garantire alla stretta finale il sostegno dell’Italia all’operazione di Helmut Kohl. Dette alla politica estera un profilo di straordinaria forza e concretezza, specialmente nello scacchiere medio-orientale e nel bacino del Mediterraneo, lungo l’asse ideale tra
sponda nord e sponda sud. Nei rapporti con il mondo arabo andò anche oltre la storica apertura della Dc, indubbiamente oltre la linea di Fanfani e Moro. Non fu mai “amerikano”: nella vicenda di Sigonella, con Craxi Presidente del Consiglio, difese l’onore dell’Italia. Forse pagò questo gesto di rigore che i circoli oltranzisti di Washington giudicarono offensivo. Ma l’uomo, comunque la si giri, aveva carattere.
Ed è per questo che non possiamo non dirci andreottiani, in un tempo che rigurgita nostalgia per la serietà di una classe dirigente che lo statista romano, anche nelle traversie e negli errori, ha contribuito
ad esaltare.