Imbarazzo malcelato e goffi tentativi di sfuggire alle domande su un’alleanza che non poteva minimamente immaginare neanche la mente più perversa di questo mondo.
Senza tema di smentita, va definita così la conferenza stampa di presentazione della candidata a sindaco del Pd, Alessandra Troncarelli, dove il convitato di pietra è stato l’ex sindaco Giovanni Arena. Tutti muti al cospetto del suo fantasma che aleggiava nell’aria della sede del comitato elettorale in via Onio Della Porta. Tutti attenti a non far percepire la sua presenza, che invece – insieme a quella dei ribelli di Forza Italia che lo seguiranno nella lista a sostegno di Troncarelli (Elpidio Micci, Paola Bugiotti e la compagna di Alessandro Romoli, Isabella Lotti) – era immanente e pesante come una cappa. Difficile per il Pd panunziano giustificare una tale aberrazione. Impossibile proferir parola per il coordinatore comunale, Francesco Serra, o per l’ipercinetico Giacomo Barelli (così lo chiamava proprio Arena quando si odiavano). Tutti muti, ma allineati e coperti per recitar la parte in commedia.
Definivano fino a poco tempo fa Arena il peggior sindaco di Viterbo (copyright Francesco Serra). Non perdevano occasione di parlare della sua amministrazione come di tre anni e mezzo di fallimenti (parole di Alvaro Ricci). Eppure, di fronte all’opportunismo del momento, nella speranza di non perdere la poltrona, eccoli qua. Facce di pietra, impassibili al rossore della doverosa vergogna che chiunque proverebbe nel giustificare il campo largo e soprattutto slabbrato che hanno messo in piedi alla faccia della politica, dei valori e dei programmi.
E’ vero: sui voti, vista la penuria che c’è in tempi di anti politica, non si sputa, ma tutto ha un limite. A loro non gliene importa niente della linearità dell’azione politica: la coerenza è una virtù di altri tempi, come la serietà e il merito. E allora tutti insieme appassionatamente con omaggi e ossequi al capo della tribù, a cui tutti quanti, trasversalmente, da tempo appartengono.
Sperano che i viterbesi se la bevano, senza pensare e senza riflettere. Non hanno vergogna. Non si rendono conto che i cittadini non ne possono più di essere usati dal teatrino dei politicanti, che sono stanchi delle promesse e nauseati dalla pioggia di milioni annunciati, ma mai visti e spesi. Non si rendono conto che stavolta la Viterbo che vogliono, i viterbesi se la faranno assieme a chi merita e vale, liberandosi dalla sudditanza e dalla vergogna di una città ridotta ai minimi termini.
Da Arena a Panunzi, da Barelli a Erbetti, non sanno che per ergersi a novità e innovazione non basta cambiare sigla o casacca. Non sanno che il tempo delle transumanze e delle giravolte è finito: mutando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, è una legge matematica e la storia dovrebbe insegnare.
La Viterbo che vogliamo non è quella dipinta da Panunzi e dai suoi accoliti. E tra l’altro Arena dovrebbe ricordare che l’Italia che vogliamo fu lo slogan di Romano Prodi. Ma a quei tempi lui, come molti altri protagonisti di questa scabrosa avventura, era dalla parte opposta con il presidente Berlusconi.