Ripendiamo dall’Osservatore Romano e pubblichiamo l’articolo di di Caterina Ciriello
Nel 1970 Paolo VI, uomo profondamente innamorato di Cristo e della Chiesa, compie un gesto che mai — in duemila anni di cristianesimo — era stato fatto: proclamare due donne Dottori della Chiesa. Una di esse è santa Caterina da Siena compatrona d’Italia e d’Europa, da lui definita «la mistica del Corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa».
Nata in un’epoca in cui non era facile “essere donne” — la loro nascita, infatti, non veniva annotata nei registri comunali — e penultima di venticinque figli, Caterina ha rifiutato la vita mondana per darsi totalmente a Dio fin da bambina. Circa dieci mesi dopo la sua nascita anche a Siena arriva la terribile “peste nera”, che dalla Cina era penetrata nel continente europeo a settembre del 1347, seminando morte e carestia in tutta Europa. Il terribile morbo le porta via due sorelle: Lisa e Nera. Perciò suo padre volle la venticinquesima figlia, che Lapa Benincasa mette al mondo senza fiatare. Le donne, di fatto, non avevano parola, né istruzione e la loro giornata si svolgeva tra le faccende di casa e la vita di pietà. Ma per Caterina no. Non era così.
Parlava poco e se ne stava in disparte a costruire la sua “cella interiore” nella quale incontrava Cristo, il quale, a sei anni, le si era manifestato sul tetto del convento di San Domenico assiso in trono. Da Lui riceve il dono di saper leggere e solo pochi anni prima della morte comincia a scrivere.
Caterina mostra subito di non essere una donna qualunque; tutto intorno a lei sa di soprannaturale, di presenza continua ed autentica di Cristo, che, un giorno, visitandola le disse: «Sai chi sei tu e sai chi sono io? Tu sei quella che non è; io, invece, Colui che sono» (Vita, 92). A. Vauchez ha scritto un libro intitolato: Caterina da Siena. Una mistica trasgressiva, nel quale, senza allontanarsi dalle più importanti fonti e correnti di studio sulla santa, riesce a mettere in luce la “vera grandezza di questa donna eccezionale”, descritta da alcuni come “spiacevole” e “irritante” e senza il fascino di Teresa d’Ávila.
Chi era veramente Caterina? Non si può rispondere in poche righe, però sì possiamo segnalare tratti fondamentali della sua persona marcata dalla forte e speciale intimità con Cristo che la rese mirabile “interceditrice” presso il suo Signore. Se qualcuno ha affermato che ella possedeva uno spirito “acre”, sarebbe stupido negare in lei la presenza di un particolare fascino — trascendente —, grazie al quale si circonda di discepoli — i Caterinati — “apprendisti” nelle cose dello Spirito e nella carità, che praticavano restando nel mondo. Caterina, infatti, decise di rinunciare alle “consolazioni spirituali” che Cristo le concedeva nel suo “ritiro” casalingo per mescolarsi nella vita sociale e politica della sua società, in una attività apostolica instancabile, generosa e dedita ai più bisognosi, accompagnata dalle donne e gli uomini che la seguivano.
Accusata di essere una “politicante” risponde di «esercitare la vita nell’onore di Dio e la salute delle anime» (Lett. 122). Per Caterina, infatti, la politica e l’amore per l’uomo sono un tutt’uno poiché Dio, “carità increata” ha creato l’umanità perché vivesse unita: «In questa vita mortale, mentre siete viandanti, vi ho legati nel legame della carità: l’uomo, lo voglia o no, vi è legato. Se egli si scioglie a causa di un sentimento che non sia la caritá del prossimo, vi rimane legato per necessità» (Dial. 148). La società, quindi, nasce da questo legame voluto da Dio ed è concepita da Caterina sì come qualcosa di soprannaturale, ma allo stesso tempo frutto di un mutuo e razionale consenso; in essa l’uomo è creatura provvista di una smisurata dignità e sacralità che ella ha sempre difeso pretendendo dai governanti solide virtù — umiltà, pazienza, dominio di sé —, senza le quali non si può amministrare una città con carità e giustizia, nella considerazione del bene universale e non di quello personale: «Conviensi che l’uomo che ha a signoreggiare altrui e governare, signoreggi e governi prima sé. Come potrebbe il cieco vedere e guidare altrui?» (Lett. 121).
Messaggera di pace tra i potenti ha tenuto testa a re e regine, governatori e uomini di Chiesa, ai quali chiedeva semplicemente di convertire il cuore e mettere la carità a servizio del bene di tutti, come scrive in tutte le sue lettere, nelle quali si rispecchia una forte moralità e grande spiritualità.
L’amore nella forma più alta della “caritas”, il rispetto, la libertà dell’altro, il dialogo pacifico e costruttivo, sono insegnamenti che «questa donna politica “sui generis”», come l’ha definita Paolo VI, ci ha lasciato ed hanno ancora oggi un valore inestimabile. Se in questo momento di ampia confusione umana e frammentazione politica, in cui abbiamo visto generarsi egoismi statali e personali davanti ad un male comune — che sempre esige una risposta “comune” e di “comunione” — avessimo prontamente risposto con quell’attitudine di servizio e non di potere sapendo che «bisogno è di rendere e di lassare quello che non è nostro» (Lett. 297) come ci insegna questa grande santa, quanto ne avremmo guadagnato in umanità? Ascoltiamo Caterina che ancora oggi ci dice: «Umiliatevi e pacificate i cuori e le menti vostre».