Da ildomaniditalia.eu riprendiamo e pubblichiamo l’intervista a S.E. Mons. BRUNO FORTE, Arcivescovo della Diocesi di Vasto-Chieti, di Francesco Provinciali.
Arcivescovo, in un saggio dedicato alle derive critiche della post-modernità Ella ha utilizzato alcune suggestive metafore per leggere e capire i segni dei tempi: il naufragio come condizione dell’uomo postmoderno, la liquidità dell’esistenza come assenza di punti di riferimento, l’assemblaggio della nave come meticciato di compresenze diverse e infine la navigazione, come necessità di definire la rotta. Può riassumere il senso complessivo della Sua riflessione?
Il tema era “Pensare la crisi”. Ora, la crisi che stiamo vivendo nel “villaggio globale” è talmente complessa che pensare di definirla in termini rigorosi mi appare un compito assolutamente impossibile: ecco perché ho scelto di usare alcune metafore. Anzitutto quella del naufragio, cara ad Hans Blumenberg, che ha voluto in essa descrivere la condizione post-moderna: mentre il testo di Lucrezio a cui Blumenberg si rifà – quello dello spettatore che dalla terra ferma guarda in lontananza il naufragio – è indice della sicurezza dell’uomo “classico” di stare con i piedi per terra a guardare il naufragio lontano, la condizione post-moderna è al tempo stesso quello dello spettatore e del naufrago, del loro identificarsi. Ecco perché l’immagine di Blumenberg – che segnala la crisi di tutti gli ancoraggi e tutti i riferimenti sicuri e assoluti- si collega direttamente all’altra, usata dal sociologo Zygmunt Bauman, della ‘modernità liquida’ dove non ci sono più ancoraggi o certezze, dove sembra che tutto sia fluido.
Eppure, sia Blumenberg che Bauman cercano in questo mare della insicurezza post-moderna la possibilità di una ulteriorità: costruire, assemblare con tavole che forse provengono da altri naufragi, una barca con cui continuare il viaggio. È questa la condizione nella quale ci troviamo e questa barca da assemblare ha bisogno certamente anzitutto dell’assunzione delle diversità, di una sorta di meticciato in cui le identità possano convivere. Sappiamo quanto ciò sia importante anche per il nostro presente in Italia. Insieme a questa operazione di assemblaggio c’è bisogno di una rotta, di una guida nella navigazione, di una sorta di codice cui ispirarsi tutti per orientare il cammino. Ecco perché l’approdo della mia riflessione sul ‘pensare la crisi’ era ed è la necessità di trovarsi intorno ad un riferimento etico che sia ispirativo per tutti e che si fondi su quella centralità della persona umana nella sua dignità assoluta e infinita che proprio il personalismo di ispirazione cristiana ha consegnato al mondo come patrimonio irrinunciabile, e che è la fonte ispirativa anche della nostra Costituzione repubblicana.
Insomma, nel grande mare della liquidità post-moderna occorre ritrovare il valore infinito della persona, dell’uomo immagine di Dio, e ritrovarsi in una fraternità di persone che si riconoscono accomunate davanti al Padre-Madre celeste di tutti: è il progetto che dobbiamo perseguire se vogliamo uscire dalla crisi.
Non Le sembra che la teoria della cosiddetta ‘società complessa’ sia un buon alibi della cultura contemporanea, incapace di tracciare vie d’uscita rispetto a questa crisi di valori forti e identitari?
C’è complessità e complessità. Se per società complessa intendiamo semplicemente un assommarsi di elementi disparati senza alcuna possibilità di coordinamento e di orientamento, questa teoria non riesce a spiegare e superare la crisi, ma ne resta sommersa. Se invece nella complessità tentiamo l’opera dell’assemblaggio, e soprattutto tentiamo di individuare la rotta della navigazione, ecco allora che la complessità da grande sfida diventa anche la grande possibilità, la grande promessa. È esattamente questo il momento storico in cui ci troviamo: tra gli eventi del 2001 e ciò che ad essi è seguito, fino alla ricerca di nuovi possibili dialoghi nel villaggio globale, la grande sfida, cui nessuno ha il diritto di sottrarsi – soprattutto chi ha responsabilità nei confronti degli altri – è quella di ritrovarci a cercare questo comune codice etico, che ci aiuti a leggere la complessità e a decifrarla per progettare l’assemblaggio, costruttivo di un mondo migliore per tutti.
Mi pare che il rapporto tra parola e silenzio sia uno degli aspetti da approfondire con più avvertita consapevolezza. Credo infatti che sia importante riscoprire il valore della parola come risultato del silenzio, del pensiero e della riflessione: nell’assordante e sovrastante vociferare collettivo le parole si sono infatti allontanate dalla loro storia perdendo il loro originario significato. Parlare ha senso se si dicono cose sensate: non Le sembra che nel linguaggio contemporaneo il ‘logo’ stia sempre più sostituendo il ’logos’?
Non è difficile constatare che siamo in un’epoca di declino della parola. Dopo il tempo delle parole come ‘pietre’, care all’ideologia rampante, sembra che oggi la parola si sia indebolita, cedendo il posto all’immagine, alla vibrazione, all’effetto immediato, alla profluvie verbale. Ora, per riscoprire la centralità della persona, per ricostruire la nave e orientarla nel mare della storia, ciò che è assolutamente necessario è stabilire relazioni autentiche. Queste relazioni hanno bisogno della parola, non di una qualunque parola, ma di quella che sappia essere frutto di un prolungato ascolto, che sia dunque anche carica di silenzio, di accoglienza dell’altro penultimo e dell’altro ultimo, che è il mistero santo di Dio. È allora che la parola ritrova la sua forza, una parola – vorrei dire – tra due silenzi: il silenzio dell’ascolto di Dio e degli altri e il silenzio della vita vissuta, in cui la parola diventa testimonianza e impegno credibile.
Mi piacerebbe approfondire con Lei il tema del silenzio: non luogo della rinuncia e dell’inazione ma occasione di riflessione, mitezza, ascolto, incontro e dono. Quanto pesa questa assenza del silenzio nella nostra formazione personale, direi già a cominciare dai banchi di scuola? Oggi tutto è accumulazione, riempimento, occupazione di tempi e di spazi. Penso ad una metafora del poeta Bertolucci: quella dell’assenza come più acuta presenza. Penso ancora ad Heidegger: ‘l’uomo è la sentinella della silenziosa quiete del transito dell’ultimo Dio’. In quel brivido di silenzio possiamo dunque avvertire meglio la presenza di Dio?
Nel cristianesimo delle origini ci fu un tempo in cui Dio Padre – in rapporto al Figlio Parola eterna – veniva chiamato ‘Silenzio’ (Sighè). Ne è testimone Ignazio di Antiochia in diverse delle sue lettere. Poi il timore del sapore gnostico di questa parola portò la comunità cristiana a rinunciarvi. Tuttavia mai nella tradizione mistica è mancato un riferimento al silenzio divino, che non è il silenzio del mutismo, ma quello della sovrabbondanza della parola, della infinita ricchezza dell’esperienza dell’amore. È in questo senso che il silenzio di Dio va recuperato nel nostro vissuto umano, etico e spirituale. E va recuperato non solo come luogo dell’ascolto, ma anche come spazio dell’affidamento: Dio non è la risposta facile alle nostre domande, ma la custodia del senso di cui tutti abbiamo bisogno per vivere e per morire. Di fronte ad una sfida come quella del recente terremoto in Abruzzo, alla tragedia di queste vite spezzate, di queste esistenze che hanno perduto tutto, dov’è Dio? Ecco la grande domanda che non possiamo non porci e che sempre peraltro il pensiero si è posto:basti pensare al poema di Voltaire di fronte al disastro di Lisbona del 1755.
La risposta non si trova certamente nella negazione di Dio o nella affermazione di un Dio ‘castigatore’, di un Dio onnipresente nel senso del giudizio o della vendetta, bensì nella testimonianza di un Dio vicino, che accoglie le vittime e le custodisce nel suo amore e che sa anche stare vicino ai sopravvissuti e rigenerare in loro la fiducia e la speranza. È il Dio della rivelazione compiutasi in Cristo, il Dio che è amore.
I miti dell’efficienza e dell’efficacia hanno soppiantato le ideologie, anche nella loro gratificante gratuità. È questa l’epoca del ‘faire et en faisant se faire’, cioè dell’essere solo per quel che si fa piuttosto che per quello che si è?In che modo si può rimettere l’uomo, la persona, la vita stessa al centro dei valori da condividere, per dialogare e capirsi?Quali sono i tratti di un nuovo e possibile umanesimo?
Credo che il passo fondamentale sia ritrovare il senso della verità in ogni cosa. Una verità che è innanzitutto essere fino in fondo se stessi ed esserlo in un progetto che ci trascende e ci supera, a cui possiamo dare senz’altro il nome di ‘vocazione’. Quando l’uomo si sforza di essere nella verità, di essere veramente in questo progetto secondo la chiamata di Dio, ecco che la libertà e – al tempo stesso – la necessità del dono di sé agli altri vengono a coniugarsi. La responsabilità è il risultato di questa coniugazione: abbiamo bisogno di un’umanità di donne e uomini responsabili, a partire da questa risposta da dare, da questo ‘pondus’ da portare insieme gli uni per gli altri, dunque da questa verità delle relazioni e dei rapporti, che in ultima analisi si fonda sulla relazione di ciascuna creatura al suo destino trascendente, in cui la verità si fa storia, carne e diventa vita della nostra vita. La rivelazione di questa verità, dell’eterno entrato nel tempo, dell’assoluto che illumina la storia, è la rivelazione del Dio fatto uomo per noi. Ecco perché il cristianesimo ha ancora una straordinaria potenzialità da svelare al mondo di oggi, agli uomini e alle donne della post-modernità, per ritrovare il senso e la gioia di esistere, ma anche la dignità del compito e la responsabilità della chiamata a cui corrispondere.
L’autorealizzazione del singolo, dell’individuo è sempre stato un mito di inizio secolo, mi pare che anche la nostra sia la società del ‘tutti contro tutti’, della competizione e delle prove di forza. C’è chi vince, ma c’è anche chi perde: quali costi umani e sociali hanno questi conflitti? Non Le sembra che manchi alla nostra epoca il cemento del ‘bene comune’?
Il fondamento dell’idea di bene comune, nella prospettiva del personalismo cristiano, non può che essere la dignità infinita di ogni essere umano, soprattutto del più debole. Dunque, bisogna ripartire dal piccolo, dal povero, dall’umile, dai suoi bisogni che sono i suoi diritti verso di noi. Bisogna riconoscere l’altro non come concorrente o avversario, ma come dono, come promessa cui va data risposta nell’amore: è solo allora che il bene comune si illumina del suo senso più profondo. Non si tratta di un bene maggiore a vantaggio di un tutto astratto, si tratta invece di un bene che realizza la persona umana in tutte le sue potenzialità, ad ogni livello, a cominciare da quello di chi meno ha ricevuto, ha meno possibilità ed è più esposto alla tirannia del tempo e allo sfruttamento dell’altro. Quando l’idea di bene comune saprà essere coniugata nei fatti e nelle scelte alla promozione di tutto l’uomo in ogni uomo, alla garanzia e alla custodia dei diritti dei deboli, allora il bene comune manifesterà tutta la sua straordinaria potenzialità come orizzonte di senso su cui impegnarsi e questa – peraltro – è la grande ispirazione della dottrina sociale della Chiesa, ma è anche l’ispirazione di quel personalismo di ispirazione cristiana che sta alla base della nostra Costituzione Repubblicana, attraverso il Codice di Camaldoli che entrò nello spirito costituente come carta fondamentale della convivenza civile nel nostro Paese.
Ho letto infatti che Lei ha auspicato una rilettura della Costituzione del 1948 e del Codice di Camaldoli del 1943, come strumenti per tracciare la giusta rotta alla navigazione del nostro tempo. Trovo che sia un’intuizione importante, un richiamo forte ai valori del dialogo e della coesione sociale. È questa la bussola per riprendere il cammino?
Direi che lo è in una doppia prospettiva. Lo è in prospettiva civile, nel senso che in questa bussola condivisa nel testo costituzionale, composta dalle grandi anime che vi confluirono, da quella cristiana a quella liberale a quella socialista, in questa comune ispirazione, fu possibile riavviare il nostro Paese dopo la guerra, operare la straordinaria ricostruzione fisica e morale di cui esso aveva bisogno. La Costituzione Repubblicana, in questo tessuto di valori, resta una carta fondamentale e irrinunciabile per tutti, credenti e non credenti, ed ha dunque un valore civile al quale nessuno di noi deve rinunciare.
Insieme a questo, il cristiano non può non ritrovare nel personalismo che ispira il dettato costituzionale una singolare presenza del dono ricevuto dal Dio di Gesù Cristo: il fatto che Dio si sia fatto uomo e sia morto sulla croce come uno di noi, ‘singolo’ come direbbe Kierkegaard, ci fa capire quanto è grande e infinito il valore di ogni essere umano, quale che sia la sua storia o il suo bagaglio di possibilità. Penso alla dignità del clandestino, dell’immigrato, dell’anziano, dell’ammalato o del giovane senza prospettive sicure di futuro: tutto questo ci interpella proprio a partire da ciò che ha costituito l’anima più profonda della nostra storia e della nostra identità in Europa, a cominciare dalle radici ebraico-cristiane e dal loro incontro fecondo con l’humus latino e con la cultura greca. Abbiamo bisogno di ritrovare tutto questo perché nella liquidità di questa post-modernità incerta, fluida, disorientante, dobbiamo riassemblare le tavole della nave per riprendere la navigazione sulla rotta del codice etico che Dio ha scritto nel cuore degli uomini. Credenti e non credenti potranno allora lavorare insieme per il bene comune in questo villaggio globale.