Da il ildomaniditalia.eu riprendiamo e pubblichiamo la postfazione dell’ultimo lavoro dell’amico Enrico Farinone.
Forse oggi è difficile percepire bene cosa significò – all’alba degli anni Sessanta – l’apertura a sinistra che condusse i socialisti al governo. E’ trascorso molto tempo e lo scenario è completamente mutato. Però se si vuole comprendere quanto rivoluzionaria e quindi difficile, impervia fu l’azione morotea in quei momenti è indispensabile riflettere con attenzione su quale fosse il clima culturale del periodo. E non ci si inganni: si sta qui parlando dei primissimi anni Sessanta, il loro albeggiare, non degli “anni Sessanta“ in toto. La differenza non è da poco. E la si potrebbe rilevare molto bene proprio attraverso la lettura di un altro grande intervento di Moro, al consiglio nazionale della DC del novembre 1968: “Tempi nuovi si annunciano ed avanzano come non mai”. Quei “tempi nuovi” si erano delineati nel corso della decade progressivamente e irresistibilmente. Ma agli inizi del decennio davvero erano solo un minuscolo e quasi impercettibile accenno.
In quel gennaio 1962 erano in fondo trascorsi nemmeno quattordici anni dalla storica votazione del 18 aprile 1948. E soli cinque dalla presa di distanza socialista dal comunismo sovietico dopo i fatti di Budapest. Il congresso del PSI da poco celebratosi a Milano (marzo 1961) se da un lato aveva dato la vittoria al segretario Nenni e alla sua linea volta a realizzare una qualche forma di accordo con la DC dall’altro ne aveva evidenziato anche la risicata maggioranza interna. Talchè più di un dubbio e di un’incertezza aveva avviluppato anche le componenti democristiane più inclini alla possibile nuova alleanza, timorose che il “neutralismo” socialista (di fatto, l’anti-atlantismo di personaggi importanti come Riccardo Lombardi e Lelio Basso) potesse irretire gli Stati Uniti e la NATO.
Sul territorio erano sorte, dopo le amministrative di fine 1960 che avevano sostanzialmente punito il centrismo, giunte comunali di centro-sinistra (non però nelle regioni, come il Veneto, nelle quali erano i dorotei a guidare la DC) ma le amministrazioni “frontiste” PCI-PSI, come ancora venivano dispregiativamente definite, continuavano ad essere molte di più. In Parlamento, per contro, l’azione socialista marcava una significativa autonomia rispetto al PCI, e questo era un dato che a Piazza del Gesù veniva tenuto in debito conto. La segreteria nazionale doveva però confrontarsi con quelle locali e l’atteggiamento di gran parte della DC di “periferia” (un termine oggi in disuso ma invece molto utilizzato ai tempi della Prima Repubblica) era ostile al dialogo con i socialisti. Anche perché incalzata da un episcopato in larga misura assolutamente contrario ad ogni forma di accordo. Esemplare fu ad esempio il modo nel quale venne osteggiato Giorgio La Pira, confermato sindaco di Firenze (febbraio 1961) solo dopo intense e tese trattative succedute alle elezioni comunali durante le quali si era sviluppata una dura campagna avversa da parte della Destra contigua alla destra dc, sia agraria sia industriale. Solo pochi giorni prima era nata la prima amministrazione di centro-sinistra a Genova nonostante la totale e largamente esplicitata opposizione dell’arcivescovo cardinal Siri. Ma ancor più rilevante fu l’ostracismo col quale a Milano il cardinal Montini avversò l’ipotesi di una giunta di centro-sinistra che la locale segreteria provinciale, guidata da Giovanni Marcora, dapprima avanzò e successivamente realizzò. L’arcivescovo coinvolse anche Piazza del Gesù, rendendola edotta del suo forte disappunto. Moro, che per i trascorsi giovanili nella FUCI veniva ritenuto assai vicino a Montini, giustificò la scelta milanese con una lettera che, per quanto ritenuta “cortese e gradita” dal porporato non diminuiva però il suo “dispiacere circa la condotta della Democrazia Cristiana di Milano”.
La destra clericale non sopportava l’idea di allargare la collaborazione governativa, anche in forme minime, a una forza politica costitutivamente “atea”. In questo facendosi forte delle numerose prese di posizione, per non parlare delle pressioni, adottate dalla più parte degli episcopati. La Chiesa italiana era ancora, per così dire, di rito pacelliano, tuttora lontana dalle inedite aperture papali incarnate in primis dall’enciclica Mater et Magistra che invece con la distinzione fra errore ed errante consentiva una interpretazione politicamente aperta, per la quale una cosa era l’adesione al marxismo ateo e un’altra la concreta azione politica del PSI, del resto ormai consolidatasi nel segno dell’autonomismo dai comunisti. Su questo punto battevano i giovani della corrente di Base, sinistra interna che interpretava in modo laico e autonomo l’ispirazione cristiana e che riteneva conclusa per sempre la stagione del centrismo degasperiano e post-degasperiano.
Queste opposte spinte e le tensioni conseguenti erano il portato di un’epoca – quella dello scontro fra cattolici e sinistra marxista e atea – che aveva contraddistinto gli anni Cinquanta e che non si era ancora chiusa. Una frattura tuttora larga e profonda che pervadeva la società italiana. Un abisso ideologico che la divideva in due. Non considerare questo dato impedirebbe a chiunque di comprendere quanto complicato fosse anche solo ragionare su un possibile governo di centro-sinistra.
Le difficoltà, e si era visto come appena detto al congresso di Milano, erano tante, per i socialisti. I quali però uno strappo importante lo avevano già fatto sulla scia del tragico destino ungherese, ragion per cui era per loro più facile – o magari, meglio, “meno difficile” – immaginarne un secondo, anche se questa volta più lacerante perché operato sul terreno della politica nazionale.
Per la DC era diverso. Tutto era molto più complicato. Un partito di dichiarata ispirazione cristiana, sin dal nome e dal simbolo, divenuto il principale e più potente in Italia grazie in primo luogo ad una straordinaria mobilitazione sia motivazionale – da parte della Chiesa Cattolica – sia organizzativa – tramite la capillare ramificazione territoriale delle parrocchie – non poteva replicare agli ammonimenti curiali con una semplice alzata di spalle. Doveva tenerne conto. Al tempo stesso la logica della politica e la necessità del governare proponevano un contesto in mutamento che non poteva non essere considerato e affrontato. Si trattava allora di tenere insieme le due esigenze. La soluzione stava nella rivendicazione dell’autonomia decisionale sul terreno della politica da parte del cristiano impegnato in essa. Un concetto già enunciato anche in passato – sin dai tempi del Partito Popolare – ma che ora doveva essere posto in pratica risolutamente. Non era così facile.
Un contributo importante in questa direzione lo diede, all’interno del partito, l’elaborazione intellettuale di un gruppo di giovani che qualche anno prima aveva costituito una corrente, denominata la Base, che proprio sul concetto di autonomia e laicità aveva posto la pietra d’angolo della propria motivazione esistenziale. Sarà comunque Moro, segretario del partito e quindi voce più autorevole di esso, a declinare con nettezza e precisione a uso pubblico la sostanza della questione. Lo fece numerose volte in vari contesti, ma forse quella più incisiva fu quando ribadì il punto con insolita energia di fronte alla platea televisiva. Uno strumento, la televisione, che stava cominciando a rivelare tutta la sua potenza al quale i politici del tempo ovviamente non erano adusi. Moro, pur se assolutamente non adatto al mezzo (probabilmente già con gli occhi di allora…) ne intuì fra i primi le potenzialità e si acconciò ad utilizzarlo. Fu dunque rispondendo ad una domanda di Eugenio Scalfari nel corso di una Tribuna politica che dettagliò il suo pensiero in modo chiaro e comprensibile per tutti e non solo per gli addetti ai lavori: “Io devo ridire che la DC non è un partito cattolico nel senso che sia un’espressione politica della gerarchia ecclesiastica, E’ un partito di cattolici i quali operano in rapporto a una realtà temporale su di un terreno che è il terreno propriamente politico, che riguarda scelte di carattere tipicamente politico”. Un punto che avrebbe ripreso, come si è visto, nel discorso di Napoli (“L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità”).
Se ci si riflette bene l’operazione politica avviata da Moro a Napoli faceva fare un salto culturale straordinario in entrambi i campi interessati. In quello cattolico si affermava il superamento della troppo frequente subordinazione dell’iniziativa politica alle visioni e ai dettati della gerarchia, o di larga parte – quella più tradizionalista – di essa. In quello socialista si superava il rigido paradigma marxista in tema di inevitabilità rivoluzionaria predicata come un mantra ogni qualvolta si doveva ragionare sui possibili sviluppi sociali di una realtà, quella occidentale, destinata invariabilmente a venir travolta dalla marcia inarrestabile del proletariato.
Certo, Moro per conseguire il risultato voluto doveva erigere un muro insormontabile nei confronti del comunismo e infatti la sua relazione congressuale è intransigente sul punto. Del resto se l’obiettivo era, come ribadito in ogni occasione, l’allargamento delle basi popolari dello Stato il primo passo non poteva che essere effettuato nella direzione socialista. Posto, inoltre, che il PCI di Togliatti – ferreamente legato all’URSS – denunciava come “deviazioni socialdemocratiche” ogni e qualsiasi riflessione innovativa e non ortodossamente marxista svolta dagli ex alleati nel Fronte Popolare.
Era un primo passo foriero di ulteriori sviluppi, certamente. Prima, però, doveva condurre nella direzione indicata e produrre i suoi effetti. Era una convivenza fra diversi, ma proprio questo era l’obiettivo, perché ampliare il consenso popolare alla democrazia e alle istituzioni repubblicane significava rafforzare la prima e consolidare le seconde. Non tutto andrà come sperato, inevitabilmente. Ma quel risultato fu comunque un punto di partenza rilevante per l’avvio di una nuova fase della ancor giovane democrazia italiana. I mitici e tumultuosi anni Sessanta erano ormai iniziati e l’Italia si preparava ad essi non solo rilanciata economicamente ma anche rinnovata politicamente. Quest’ultimo esito era in larga misura frutto della sagacia di Aldo Moro. Col discorso di Napoli l’Italia era entrata nel futuro.