Riprendiamo e pubblichiamo da ildomaniditalia.eu
1) Sig. Gimondi, nel ciclismo Lei è stato certamente uno dei più grandi campioni di sempre.
Nel suo palmares di vittorie c’è la Vuelta, il Tour, il Giro d’Italia, il titolo di campione del mondo. Come ricorda il ciclismo di quegli anni, dal punto di vista sportivo e tecnico da un lato e umano e spettacolare dall’altro?
Ci sono analogie e differenze con il ciclismo di oggi?
Si, sicuramente perché oggi c’è una esasperazione elevata, nella preparazione e nella competizione. I ciclisti hanno carature diverse e concentrano l’impegno in una parte della stagione agonistica, non corrono tutto l’anno come si faceva una volta, non hanno tenuta per l’intera stagione, si focalizzano su singoli obiettivi. Questo toglie lo spettacolo ma anche il tifo che c’era una volta, quando ci confrontavamo da febbraio a ottobre in tutte le gare. Allora c’era una prevalenza della motivazione umana, oggi dell’aspetto tecnico e di quello economico: prima si lavorava con un po’ più di sentimento. Tanto per fare un esempio io nella mia carriera ho corso per l’oratorio di Sedrina, poi per la Salvarani (fin quando ha smesso la sua attività) e infine per la Bianchi. Si restava legati e affezionati alla squadra, all’azienda, anche senza mettersi sul mercato per guadagnare di più. Oggi è cambiato il ciclismo ma è cambiata anche la vita: ci si accontentava e si era più felici, ma quei tempi – dal punto di vista umano e sentimentale – non torneranno più. E’ proprio cambiato il modo di vivere, tutto è diventato difficile e complesso.
2) Resta celebre la Sua rivalità sportiva con Eddy Merckx. Era un limite agonistico o uno stimolo continuo ad utilizzare tutte le risorse fisiche e mentali per competere con lui?
Avevo fatto due anni di gare e vittorie prima che arrivasse Mercks ed ero forse considerato senza presunzione il numero uno al mondo. Avevo vinto di seguito il Tour, la Parigi- Roubaix, la Parigi-Bruxelles, il Giro di Lombardia. Quando è arrivato lui io ho impiegato un paio d’anni sotto il profilo psicologico ad adattarmi a lui: Mercks mi ha tolto ma mi ha anche dato.
Mi ha tolto tante vittorie ma anche un modo di correre audace, ho imparato tattica e prudenza. Secondo me è stato il più grande di sempre: aveva doti naturali straordinarie ma poi in Eddy c’era l’applicazione, la volontà, il carattere. Una macchina costruita per vincere.
3) Lei ha conosciuto e gareggiato con molti campioni, in un’epoca dove anche il mezzo tecnico, l’intelligenza tattica facevano la differenza oltre la prova di forza fisica e di resistenza. Quali Suoi colleghi ricorda in modo particolare, legandoli magari a brevi aneddoti personali?
Come ho detto Eddy è stato il più grande ciclista della storia. Ha vinto 500 corse, di cui 51 in un anno. Cinque Giri, cinque Tour, tre mondiali, sette Milano-Sanremo, dieci Liegi-Bastogne-Liegi. Poi ricordo – per la classe immensa e la signorilità Jacques Anquetil e lo spagnolo Fuente: uno spagnolo vero, di temperamento, non all’Indurain (che mi sembrava più una macchina tecnologica).
Fuente era un istintivo, gli spagnoli della mia generazione (Fuente, Jimenez, Bahamontes) erano grimpeur di grande temperamento come il nostro Massignan, poi sono cambiati, da Indurain in poi. Ricordo Gianni Motta, uomo di grande classe e poi Moser: tenace, forte, vero, istintivo, di grande temperamento nel ciclismo e nella vita. Tra i gregari uno su tutti, il più completo, fedele, continuo: Hubreck e poi Parsani, Ronchini, Pambianco. Tutta gente che mi dava sicurezza avendoli vicini: ci si capiva in corsa e poi si parlava e si studiava alla sera la tattica di gara. Erano antenne della corsa.
4) Dopo il dualismo Coppi-Bartali Lei seppe riconciliare il tifo degli italiani, entrando nella leggenda degli ineguagliabili, degli eroi del pedale capaci della grande impresa epica e indimenticabile.
Un pò quello che sarebbe poi capitato più recentemente con Pantani. Che cosa non
funzionò, quali problemi emersero invece nella sua storia, pure contrassegnata da infortuni e
da una tenacia indicibile e commovente?
Io voglio ricordare Marco il giorno in cui salii con lui sul palco a Parigi quando vinse il Tour: io ero stato l’ultimo italiano a vincerlo prima di lui. Ebbe una fortuna e una grandezza immensa che uscirono subito che furono sprecati banalmente più sotto il profilo umano che atletico.
A trentatre anni si diventa uomini, non si può morire.
Seppi della sua morte quella sera, uscendo da un ristorante con mia moglie. Era la sera di San Valentino. Fui suo presidente, gli ero amico: un grande temperamento ma tante volte voleva fare di testa sua. Ricordo altri ciclisti morti in corsa: Simpson, Santisteban. Sono ricordi che ti restano dentro.
5) Il ciclismo – attraverso la bicicletta – trasporta e dissemina proprio fisicamente nel mondo e tra la gente i valori dello sport, è un mezzo per trasmettere sentimenti di amicizia e di lealtà tra le persone, una passione forte che non ha età. In che cosa consiste per Lei questo fascino indicibile che lega la persona al senso di avventura, che ci fa ammalare per il mezzo tecnico, la cura dei dettagli, che ci mantiene giovani nonostante il passare degli anni? Dopo l’agonismo e le imprese sportive resta ancora accesa in Lei questa ineguagliabile magià?
Il fascino più importante e significativo per me è l’emblema della fatica, che ti mette sullo stesso piano di tanta povera gente che deve lavorare, tribolando. Ricordo a Liegi quegli italiani che venivano sotto il mio albergo a chiamarmi e applaudirmi: era gente che lavorava in miniera e faceva della mia vittoria motivo di riscatto. Non dimenticherò mai gli italiani che ho incontrato all’estero, per via delle mie corse: avvertivo la loro sofferenza e correvo anche per loro.
Sentivo la loro nostalgia per il nostro Paese: io portavo loro il ricordo della patria lontana, quando gli italiani erano chiamati “maccaronì”.
6) Ancora adesso Lei prende la bicicletta per farsi il suo giro con gli amici, mantiene accesa la vecchia passione?
Vado la domenica, adesso uso spesso la mountain bike perché la strada è diventata pericolosa.
Controllo meglio il mezzo, vado più piano e mi diverto di più.
Ho aperto una scuola di mountain bike per bambini, credo che per loro sia più facile iniziare con questo mezzo.
7) Quali consigli si sente di dare ai giovani che vogliono intraprendere la strada del ciclismo amatoriale e poi agonistico, quali sono le doti che devono coltivare, oltre la preparazione fisica e la cura del mezzo tecnico?
Di non avere mai un rapporto esasperato e agonistico con il mezzo e gli altri ciclisti ma di cercare invece un contatto diretto con la natura. Ci sono tanti bambini in città che non conoscono tipi e qualità degli alberi e delle piante. Purtroppo – questo è il grosso problema – le nuove generazioni non potranno più fare a meno delle tecnologie: per questo crescerà sempre di più il bisogno fisico, organico, di scaricare la tensione psicologica e lo stress fisico. Ecco che la bicicletta è il mezzo ideale per questa scarica di adrenalina, inoltre permette di riappropriarsi dello sfogo fisico, della fatica e dell’esercizio come valvola di scarico psicologico e garanzia di stile di vita fisicamente corretto e salutistico.
8) Al di là dello spettacolo, della performance, della gara e della vittoria anche il ciclismo – come ogni sport – ci permette di capire che ogni prova della vita richiede impegno, dedizione, prudenza, fatica, sacrificio. E’d’accordo su questo significato educativo da attribuire allo sport in generale?
Tutta la vita richiede impegno diretto, conoscenza, sacrificio, fatica: il merito esce fuori da queste prove non dalle cose facilitate o dalle aristocrazie già stabilite. Tutti devono essere messi in condizione di competere, alla pari. Credere in se stessi, migliorarsi, superare le difficoltà con le proprie forze, metterci impegno e motivazione. Conta ciò che si ha dentro, che si pensa in modo corretto e onesto: non l’apparenza e neanche quello che gli altri possono pensare di te. Le risorse, tutte, sono dentro di noi.
Quando vado nelle scuole a parlare di sport ai ragazzi cito sempre un aneddoto che mi riguarda, quello dei campionati del mondo su strada di Barcellona, dove i favoriti erano Maertens, Ocana e Merckx. Nessuno puntava su di me. Io mi sarei accontentato di arrivare secondo, invece vinsi io.
Dico sempre ai ragazzi: “quando passa il treno dell’opportunità bisogna essere pronti per salirci”, questo non accade solo per fortuna ma per l’impegno che metti nel cercare questa occasione.
Questo vale nello sport e nella vita.
9) Mi pare che ci sia un ritorno nella mentalità e nelle abitudini della gente al rispetto della natura, all’ecologia, al passatempo libero e gratificante, oltre le ubriacature della televisione spazzatura, di internet e degli stili di vita malsani. Condivide questa impressione e in che misura la vecchia, gloriosa bicicletta può aiutarci a spezzare le routine, a vincere la noia e la sedentarietà che si viva in campagna, al mare, nei paesini o nei centri urbani?
Non servirebbe allora una più oculata tutela all’uso di questo mezzo, attraverso politiche urbanistiche e dei trasporti che ne favoriscano la diffusione, specie tra i giovani?
E’ ormai indispensabile aver cura degli spazi da riservare alle piste ciclabili. Quello che ancora manca è la possibilità di collegare i centri urbani con le piste esterne alle città per evitare – spostandosi con l’auto – di accumulare traffico e annullare i benefici dell’uso della bicicletta che deve invece essere favorito come mezzo di trasporto totale, senza interruzioni di percorso.
Occorre riservare spazi alla bicicletta per usarla ovunque. Occorre ripensare anche la presenza di uno spazio ciclabile nelle strutture sportive. La bicicletta come mezzo di trasporto – oltre a non inquinare – permette maggiore libertà di movimento.
Ricordo che dieci anni fa mi trovavo a Bonn presso l’ambasciatore italiano con un gruppo organizzato dall’ACMA di Milano in occasione della Fiera di Colonia – e il giorno di apertura dell’evento fieristico ci spostammo tutti – eravamo una trentina – da Bonn a Colonia in bicicletta. Cinquanta chilometri in mezzo al verde, se incrociavamo le strade le auto si fermavano per darci la precedenza: è un esempio di ‘cultura’ all’uso della bicicletta che qui da noi manca.
10) Sig. Gimondi, nella Sua carriera sportiva Lei ha indossato molte maglie, con molti colori.
Tra il giallo, l’iridato e il rosa, qual è quello che è rimasto nel suo cuore?
Il giallo è certo il più importante, dal punto di vista sportivo: il Tour de France è la corsa ciclistica più prestigiosa e completa al mondo, si svolge nel pieno della stagione agonistica, sono 22 giorni di gara che ti chiedono il massimo e poi c’è la presenza più qualificata di atleti. Ma certo anche il rosa ha il suo valore, così come l’iridato di campione del mondo. Personalmente però ho nel cuore la maglia tricolore, di campione d’Italia. Sono sempre stato orgoglioso di portare i colori della mia bandiera sulle strade del mondo.