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Dopo le elezioni e il nuovo volto che gli elettori hanno dato al Parlamento europeo, molti temi geopolitici aspettano un equilibrato esame sia per quanto riguarda la situazione interna all’Unione, sia per i rapporti con il continente africano. In questo articolo il senatore Lucio D’Ubaldo ci aiuta a leggere i nuovi e vecchi orizzonti su cui si affaccia il neoeletto Parlamento.
(Popoli e Missione – n. 7 – 2019)
È tempo di sintesi dopo il profluvio di valutazioni a caldo, chiuse le urne, attorno ai vinti e ai vincitori di maggio. Dalle elezioni l’Europa esce rafforzata nel suo faticoso percorso verso una crescente ed equilibrataintegrazione. Intelligenza vuole che il modello di convivenza e collaborazione acquisisca caratteri più armonici, soprattutto grazie a un rinnovato primato della politica, per staccare dall‘economicismo e dal burocratismo l‘esperimento ultradecennale dell‘Unione. In questa competizione è emerso con chiarezza un dato macroscopico: il progetto audace, nient‘affatto scontato, di cui furono interpreti i Padri fondatoriall’indomani della seconda guerra mondiale, malgrado tutto resiste e va avanti. L’implosione dell’Europa è stata scongiurata.
I sondaggi, in realtà, fotografavano da mesi l’arresto dell’ondata anti-europeista. A conti fatti, pur dovendo registrare il declino dei gruppi storici dell’europarlamento, prende forma un assetto più articolato ma pur sempre saldo, quindi coerente e affidabile, come ieri o più di ieri, con l’ambizioso disegno di un potere sovranazionale a misura del ruolo di un’Europa ancora protagonista nel concerto della grande politica internazionale. Se Popolari e socialisti ora sono più deboli, Verdi e liberali escono invece irrobustiti dalle urne. C’è un nuovo equilibrio da inventare, immaginando che abbia comunque l’energia capace d’imprimere la necessaria spinta alla futura attività dell’Assemblea di Strasburgo.
La fiducia deriva da semplici constatazioni. A parte il dato dell’Italia e della Gran Bretagna – alle prese, quest’ultima, con l’infinita e tormenta vicenda della Brexit – la partecipazione elettorale ha toccato mediamente percentuali superiori al passato: un buon segnale, questo, a favore dello sviluppo di una democrazia radicata nella dimensione continentale. Vuol dire che la legittimazione dell’Europa a livello di pubblica opinione e corpo elettorale, avanza e progredisce nonostante tutto. La propaganda avversa, condensata nelle parole d’ordine di un nuovo nazionalismo, non ha raggiunto i suoi obiettivi.
L’Europa deve tornare a incidere sulle vicende del mondo. La pace e il progresso come beni universali dipendono in gran parte dal recupero di un’ideale storico-concreto, ovvero di una civiltà pluriforme e complessa, che si è sedimentata per secoli e secoli, entrando in crisi con la fine dello “ius publicum europaeum”. La guerra fredda ha reso subalterna l’Europa. Tuttavia, senza il contributo che essa può offrire, specialmente nell’attuale confronto multipolare, con l’emersione prepotente della Cina e l’instabilità della funzione imperiale degli Stati Uniti, il nostro pianeta è destinato a misurarsi con il proliferare di logiche di scontro, ancor più pericolose per mancanza di quel bilanciamento che il confronto USA-URSS a suo modo garantiva.
La geopolitica, intanto, porta a ricostruire il ponte tra Europa e Africa. Sulle ceneri del colonialismo, dopo il lungo processo di conquista dell’indipendenza nazionale, i popoli e gli Stati africani possono riporre fiducia nei rapporti con il Vecchio Continente. L’Unione europea, d’altronde, guadagna credito proprio nella prospettiva di questa feconda ipotesi di collaborazione. Non bisogna dimenticare che la presenza della Cina, oggi vista come una minaccia, è anch’essa un prodotto della guerra fredda. Molti regimi africani ebbero gioco facile a motivare l’apertura nei riguardi di Pechino con l’esigenza di una “terza via” tra America e Unione sovietica. Anche l’ideologia dette man forte a questa strategia dei “non allineati”: il capitalismo si poteva combattere meglio con libretto rosso di Mao. L’intreccio di marxismo e confucianesimo conferiva alla formula del comunismo cinese un fascino particolare. Il maoismo ebbe fortuna nelle università europee e trovò accoglienza nei nuovi Stati indipendenti del Continente nero.
Altra si dimostra la condizione odierna. Quello che doveva essere un aiuto, nella realtà si è trasformato in un vincolo pesante. Gli investimenti cinesi hanno avuto ricadute impreviste, più che sgradevoli, sui bilanci degli Stati beneficiari. Il costo delle infrastrutture – porti, ferrovie, reti stradali – ha spinto in alto il debito di molti Paesi. Lo sviluppo locale è strangolato nella morsa di enormi problemi finanziari. Anche la qualità delle opere pubbliche lascia molto a desiderare. Si è assistito a un rapido deterioramento di strutture evidentemente costruite con materiali di scarsa qualitá. Il mito della Cina appartiene ormai al passato. Da ciò deriva l’urgenza di rinsaldare la politica di cooperazione tra i due continenti affacciati sul Mar Mediterraneo.
Un tempo l’Africa era vuota, il suo deficit demografico cozzava con l’aumento massiccio tra ‘800 e ‘900 della popolazione europea. Le previsioni dicono viceversa che nel giro di qualche decennio le parti si saranno abbondantemente rovesciate: per ogni cittadino europeo, ne avremo cinque africani. Con due miliardi e mezzo di abitanti, prevedibilmente nel 2050, l’Africa si accinge ad essere il continente più popoloso della Terra. Si tratta di una vera e propria rivoluzione, con scenari evocativi di possibili turbolenze. Senza una correzione della curva demografica, a rischio è la tenuta sociale ed economica dell’Europa; senza un adeguato modello di sviluppo economico, in Africa è invece a rischio la stessa condizione di vita, già precaria e difficile oggi, di sempre più ampie masse di popolazione. In questa cornice si colloca, per quanto ci riguarda, l’indebita e sconsiderata manipolazione in chiave xenofoba dei temi dell’accoglienza e dell’aiuto, nel presupposto che la salvezza consista nel chiudere le frontiere, erigere muri, respingere i migranti. Irrazionalità e disumanità avanzano di pari passo nella illusione che il benessere si conservi tale e quale, dove attualmente alligna, supponendo di trovare rifugio nell’improbabile paradiso dell’autarchia (di tutti contro tutti).
Non dobbiamo cadere nel pessimismo. In effetti, dalla nostra abbiamo un deposito di sensibilità politica e culturale, che nutre fin dalle origini il progetto europeista. Quando nasce infatti la Comunità, nel secondo dopoguerra, ben 50 Paesi africani su 53 erano sotto un regime di tipo coloniale. Si volle imboccare, per consapevolezza e responsabiltà, un’altra strada. Per questo la quarta parte del Trattato di Roma (1957) individuò la formula dell’associazione “dei paesi e territori d’oltremare” alla Comunità economica europea “in modo da condurli”, così recita l’articolo 131, “allo sviluppo economico, sociale e culturale che essi attendono”. È stato solo il primo mattone di una costruzione che ha visto sviluppi sempre più articolati e impegnativi, specialmente dopo l’istituzione nel 2000 dell’Unione africana.
Altre tappe andrebbero ricordate, ma sarebbe troppo lungo soffermarsi su di esse. L’attenzione piuttosto va riposta sulla dichiarazione di volontà in ordine al rafforzamento del partenariato tra Europa e Africa. Gli scambi commerciali sono molto intensi. Il 36 per cento delle merci prodotte in Africa finiscono sui mercati del Vecchio Continente. Lo sviluppo dei popoli africani costituisce un grande obiettivo strategico dei Vertici europei. Sono stati adottati, fino al 2020, piani d’investimenti comunitari pari a 32.5 miliardi. Nei documenti della Commissione di Bruxelles campeggia la definizione di “regione prioritaria” proprio a riguardo dello spazio geopolitico africano. A dicembre scorso, infine, si è tenuto a Vienna un vertice bilaterale che ha fornito ulteriori indicazioni sulle prospettive di sviluppo.
L’Europa, con il suo retaggio culturale e il suo potenziale economico, possiede gli strumenti per agganciare l’Africa al progresso del mondo. È nel suo interesse farlo.
*L’articolo, qui riproposto, appare sul numero di luglio-agosto della rivista “Popoli e Missione” diretta da don Giulio Albanese.