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L’alternativa alle cinque parole di Salvini deve dunque smontare pezzo per pezzo la sua proposta, e proporre un modello di società aperta
di Dante Monda
“Gli Italiani sono più avanti di qualche fine analista politico che riempie le pagine dei quotidiani”. Così Matteo Salvini ha commentato a caldo i risultati elettorali, cioè la sua clamorosa vittoria alle europee, il 34% dei voti, con cui la Lega si posiziona primo partito in Italia, seguito a lunga distanza dal PD (22%) e M5S (17%), nonché il diffuso successo alle amministrative. Tentando un’analisi lucida e intellettualmente onesta, si deve innanzitutto riconoscere per buone queste sue parole iniziali: l’elettore ha sempre ragione, “è avanti”.
Dunque, un buon modo per comprendere il senso di queste elezioni, e per lo meno i risultati in Italia, è innanzitutto ascoltare le parole del vincitore scelto dagli Italiani. Andando a fondo, occorre comprendere la coerenza interna del suo messaggio: solo entrando nel suo orizzonte si potrà contrapporre un’alternativa e muovere una critica. Dunque, esaminiamo i suoi primi discorsi da vincitore indiscusso delle elezioni europee.
“L’emozione è grande, la soddisfazione è grande… la responsabilità è grande”, sottolinea. Dalle prime parole entra in gioco il tema della responsabilità, dell’affidabilità e della solidità. Gli Italiani, dice, sono “concreti, sani, onesti”. Un’onestà leggermente diversa però sia dall’#onestà assunta a slogan anti-casta e principio cardine dal M5S, sia dalla riproposizione anni ’90 e primi 2000 in chiave anti-berlusconiana e moralista della “questione morale” che la sinistra ha per fortuna ormai pressoché abbandonato. È un’onestà fondata sulla concretezza dei “fatti” e dei “dati” (“i dati ci danno ragione”), che impone “il momento della responsabilità”, perché “la festa dura pochi minuti”.
Infatti non c’è più tempo, lo slogan è “fare, fare, fare!”, come e cosa fare vengono in secondo piano. “Il forte mandato” (“ancora sopra il 50%” i voti a favore delle forze al governo) dei cittadini spinge a “rivedere i parametri europei”, a “riportare al centro del dibattito europeo il diritto al lavoro, alla salute, alla vita”. Non viene chiarito però in che modo “rivedere” e in che senso “riportare al centro”: ri-tornare dove? Questo non viene detto, o meglio, viene supposto come chiaro ed evidentemente deducibile dalla valanga di “dati” e “fatti” di cui Salvini invade i media. Come ogni buon studente, sa che il modo più veloce per convincere di essere preparato e suscitare fiducia in un professore (spesso pigro o disattento) è assordarlo con singole nozioni e informazioni, immagini forti ed esempi. La tesi di fondo resta sfumata, perde importanza, il piano generale non importa più, ma l’esame si passa.
Di buono c’è che le due simili onestà sopra citate (istituzionale di sinistra o forcaiola grillina), che coinvolgevano e indagavano il privato, vengono ora parzialmente superate in nome di un certo garantismo. Eppure sembra non siano scomparse, ma solo riassorbite in una sorta di etica del lavoro (negli ultimi mesi Salvini avrà detto decine di volte “mi pagano per fare il ministro”) di simile durezza divisiva, fondamentalmente stacanovista, fondata sul sacrificio (l’accenno alle ore di sonno arretrato) e infine sulla lotta (il ministro che “combatte gli spacciatori”, lo slogan ripetuto “contro tutto e tutti”). L’andare “contro corrente”, l’essere politicalmente scorretto, è la vera forza di Salvini. Più gli si oppone frontalmente, più aumenta la sua forza d’urto. Come dice chiaramente, “ho vissuto questa campagna elettorale con passione e con orgoglio, con attacchi quotidiani e vergognosi, però la vita reale è più forte degli attacchi virtuali”: bisognerebbe aggiungere un nesso causale fra “orgoglio” e “attacchi”, innanzitutto perché molti attacchi se li è cercati (la vicenda del Salone del Libro è un esempio lampante), inoltre perché tali attacchi sono stati, come detto, controproducenti, in quanto fondamentalmente faziosi e/o inconsistenti.
Ma, al di là degli slogan e della ricerca della rissa, c’è forse una concretezza che Salvini ha davvero in mente, un nocciolo politico rilevante, da inquadrare sul serio: quella che lui chiama “la vita reale”. Cosa intenda con queste parole si ricava innanzitutto dal primo punto che indirettamente pone sul tavolo delle trattative con i compagni di governo: abbassare le tasse. La vita reale è fatta innanzitutto di soldi in più che restano in tasca al cittadino. La teoria economica neoliberista secondo cui la riduzione delle tasse aumenta la domanda e dunque rimette in moto l’economia è semplicemente ciò che fa tornare i conti e dà (forse, speriamo) le coperture, ma Salvini sa che quello che conta per lui è che l’italiano si senta direttamente coinvolto in quanto risparmiatore-lavoratore, difeso e tutelato, nei suoi interessi immediati e quantificabili, da uno Stato al contempo benevolente ma forte, uno Stato che sintetizzi vicinanza e lontananza, sicurezza dalla criminalità e libertà dalla burocrazia. Uno Stato fondamentalmente miracoloso.
Chiama in causa Dio (o meglio “chi c’è lassù”) per ringraziarlo, certo non per i risultati elettorali (sorge la domanda: e allora perché ringraziarlo la notte delle elezioni?), ma perché aiuta a “ritrovare speranza, orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”. Ecco la genialità di Salvini: collocare sullo stesso piano e mescolare la speranza, virtù teologale che coinvolge il “destino e il futuro” del Paese, con concetti terreni e autoreferenziali: “orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”. Dei cinque doni di Dio secondo Salvini la prima, la speranza, è l’intrusa, ma serve a dare una veste nuova alle altre, a proiettarle emotivamente verso un futuro aperto e progressivo. Salvini è paradossalmente coerente nel suo progetto di confusione di terra e cielo, che lui ci creda o meno. Il risultato è efficace, ce lo dicono i risultati, i suoi cari fatti, e lui stesso dichiara di voler “riappassionare alla politica gli Italiani con i fatti”. Qui sta il punto. Serve a poco che quando sguaina la croce argentata e la bacia qualcuno urli in lontananza “giù! Giù!”. Non basta gridare alla strumentalizzazione (e ghettizzare ancora una volta la religione nella sfera privata), bisogna invece mostrare come egli effettivamente si distorcano i contenuti del messaggio cristiano e, ancor prima, i fatti stessi; bisogna dimostrare innanzitutto come la sua visione di “orgoglio, radici, lavoro, sicurezza” comprometta nei fatti la “speranza” di un orizzonte di lungo periodo di una società aperta orientata a una crescita integrata al suo interno e nel contesto mondiale.
Come rispondere a Salvini
Quando si comprenderà che l’alternativa a Salvini è proprio il contrario dello scontro frontale di cui è campione, e che la vera partita si gioca sui contenuti concreti e sulla loro narrazione proiettata sul “futuro e sul destino” del Paese? Insomma, quando si comincerà a prendere Salvini davvero sul serio? Perché finché non lo si fa continuerà a vincere. Al contrario, proviamo ora a dare una breve lettura critica del suo sopra citato “pentalogo”: “speranza, orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”, e a presentare un’alternativa. È una serie molto eterogenea di parole chiave emotivamente forti, in cui vi è un paradossale gioco di equilibri quasi geometrico fra la prima parola, “speranza”, che apre al futuro, e l’ultima, “sicurezza”, che chiude all’altro, protegge e difende da un pericolo. Equilibrio precario, sbilanciato totalmente da quelle parole centrali, “orgoglio” e “radici”, urticanti per una certa classe borghese, che oltre a far pendere a destra la bilancia, gettano una strana luce sulla “speranza” di Salvin: forse intendeva “sopravvivenza”, “autoconservazione”, “mors tua vita mea”. Infine c’è il “lavoro”, i fatti, i dati, la serietà, la concretezza. Non c’entra niente con le altre, ma serve a farle passare come innocue al ceto un po’ più istruito (quello che ha appena rabbrividito a sentire “orgoglio” e “radici”): i fondo Salvini è solo un buon amministratore. Nel menù ce ne è per tutti: si rassicurano i moderati-progressisti che devono investire (“speranza”), si compattano i vecchi conservatori identitari (“orgoglio” e “radici”), si rassicurano i moderati conservatori del ceto medio-basso (“lavoro” e “sicurezza”).
Chi rimane fuori? Gli “altri”, e i giovani. Per quanto Salvini denunci spesso la fuga dei cervelli, ne fa una questione di orgoglio nazionale e quasi di protezionismo applicato agli studenti. Quella che manca, fondamentalmente, è una vera speranza, cioè visione di lungo periodo di una società aperta. Quella che manca è la fuoriuscita dal paradigma secolare della disciplina e dell’ordine statale che irregimenta, protegge e garantisce. Quello che manca semplicemente è il futuro e la comprensione di un mondo che manca. Salvini riesce abilmente a presentarsi come il futuro, ma è essenzialmente una riproposizione rimescolata e rivisitata del vecchio modello dello Stato forte e neoliberista. “Lavoro e sicurezza”, cioè in sostanza “spremere di più il limone”, come stigmatizza Magatti in un suo recente saggio. Una visione miope del nuovo paradigma nel quale siamo, che impone sfide di ben più alta portata.
L’alternativa alle cinque parole di Salvini deve dunque smontare pezzo per pezzo la sua proposta, e proporre un modello di società aperta, non semplicemente per buonismo e vago cosmopolitismo da salotto, ma per una corretta e concreta visione della realtà nel suo evolversi sul lungo periodo e nel suo contesto globale. La “vita reale”, per usare le sue parole, di questa società aperta presenta un “lavoro” inteso non come assegnazione individuale di un posto fisso e dunque come tornaconto privato (la miopia del “meno tasse”), ma come forma di relazione libera e generativa con l’altro (il prossimo), con cui collaborare sempre in forme nuove e diverse; questa società aperta non ha bisogno di dirsi orgogliosa delle proprie radici, perché è abbastanza forte da essere da riscoprirle sempre nuove proprio nell’incontro con l’altro e il diverso; è abbastanza forte, infatti, da non dover per forza dirsi “sicura”, “protetta” da qualcosa (perché lo si dica, l’emergenza sicurezza semplicemente non esiste). Insomma occorre uno sforzo intellettuale per comprendere e far comprendere che la costante prova di forza di Salvini è semplicemente prova della debolezza e dell’ansia che egli avverte e contribuisce a generare, in un circolo vizioso. Occorre essere più forti di lui nel presentare un’alternativa decisamente incentrata sul dialogo e sulla cooperazione nel lavoro, nell’istruzione, nel rapporto fra generazioni e fra popoli.