Riceviamo e pubblichiamo*.
A distanza di alcuni anni, ci sono verità che stanno finalmente emergendo. Siamo al termine del 2018 e vicini alla fine del periodo del Qe, il piano di acquisto dei titoli pubblici e privati da parte della Bce, e questo passaggio arriva nel momento in ce n’è più bisogno per dare ossigeno all’economia dei Paesi membri dell’Unione.
A gennaio la Bce cesserà, infatti, il Quantitative easing, anche se il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si è reso disponibile a prolungare il programma di acquisto di titoli del debito pubblico e privato degli emittenti dell’Eurozona. Ciò non segnerà, però, la fine della politica monetaria espansiva, visto che la Bce, attraverso le banche centrali nazionali, continuerà a reinvestire i proventi dei titoli in portafoglio ben oltre l’eventuale aumento dei tassi d’interesse che partirà non prima dell’autunno del prossimo anno.
Dal marzo 2015 la Bce ha acquistato, in base ai criteri parametrati sulle singole economie della zona euro e non sulla mole del loro debito, 2500 miliardi di euro di obbligazioni degli stati europei, tra cui 350 miliardi di euro destinati al debito italiano, 400 a quello francese e quasi 500 a quello tedesco. Da qui si evince che tale manovra facilitò proprio chi accusava il governatore italiano della Bce.
Facciamo chiarezza. Non si parla di titoli di nuova emissione, ma di obbligazioni già presenti sul mercato o già in pancia al sistema bancario. Questo per dire che non è corretto chiamarlo Quantitative easing, altrimenti si rischia di confondersi con le analoghe e precedenti misure della Federal Reserve americana e della Banca del Giappone. Quelle sì che erano misuredi finanziamento del debito pubblico!
Le manovre di Draghi sono state, invece, solo misure di stimolo monetario dirette principalmente alle banche per far ripartire la leva del credito che si era fortemente bloccata a seguito della crisi del debito sovrano seguita a quella finanziaria del 2008. Fu proprio questa la manovra che Confartigianato condivise per il rilancio dell’economia, legata alla sussidiarietà e mutualità dei confidi locali che, con una iniezione di fiducia, misero di nuovo in moto un settore, quello finanziario, fino ad allora dormiente.
In quel momento si ebbe una crisi tutta interna all’Eurozona scatenata dalle improvvise dichiarazioni dei due leader di Francia e Germania, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, che dichiararono che gli Stati dell’euro potevano fallire. Era l’ottobre del 2010. Fu un assist succulento agli speculatori per accanirsi sul debito delle economie mediterranee. La parola spread, fino ad allora conosciuta solo agli addetti ai lavori, divenne familiare e imperversò nel linguaggio comune. In pratica, con quelle dichiarazioni si stava dicendo che la Bce non era una vera banca centrale e che non poteva garantire le obbligazioni in euro emesse dai governi europei, soprattutto quelli mediterranei.E quelle parole poco lungimiranti del duo franco-tedesco col tempo hanno partorito e alimentato i movimenti sovranisti, che oggi si stanno imponendo nelle piazze e nelle urne.
Toccò al nuovo presidente della Bce, Mario Draghi, subentrato all’uomo della Trilaterale Jean-Claude Trichet, prendere provvedimenti per bloccare gli speculatori finanziari: Draghi alzò i tassi d’interesse nel pieno della crisi per stabilizzare i prezzi, attuò politiche economiche di stimolo che andassero oltre la leva del solo tasso d’interesse.
Alle soglie del 2019 la dinamica economica è ripartita. Ma in realtà, con problemi diversi, l’Europa e la Bce dimenticano la Brexit. Questo provocherà un rallentamento, dopo marzo 2019, e la mancanza di stimoli monetari potrebbe portare a un momento di stanca del ciclo economico e causare un’accelerazione della caduta dell’economia dell’Eurozona di cui beneficeranno solo i Paesi europei fuori dalla zona monetaria dell’euro.
*Stefano Signori, presidente di Confartigianato Imprese di Viterbo