Francesco Serra è un fiume in piena. Com’è nel suo stile, parla e straparla all’indomani dall’espulsione dal Partito democratico. E come lui, nell’attesa di capire se saranno presi provvedimenti anche nei confronti dei suoi protettori (Panunzi e Mazzoli in primis), fanno tutti gli altri candidati presentatisi all’interno delle due liste del dissenso, marchiate Asl, che hanno provocato, alle elezioni comunali, i danni che tutto il centrosinistra adesso sarà costretto a pagare.
“Sono felice – dice Serra – di non appartenere al Pd di Viterbo”. Ma contento di che? E poi: perché parla di Viterbo? Risulta a qualcuno che il Pd sia una federazione su base territoriale di piccoli partiti ognuno indipendente dall’altro? La sensazione è che il medico cardiologo di Belcolle, al pari dei suoi compagni di viaggio, non se l’aspettasse proprio questa cacciata, forse perché altri, conoscendolo nell’animo, l’avevano rassicurato, oltre che incoraggiato.
Fatto sta che alcune considerazioni si rendono necessarie. Serra dovrebbe sapere innanzitutto che l’appartenenza a un partito si basa su alcuni principi fondamentali: la rappresentanza e la lealtà. Il che comporta – è una regola democratica che vale in qualsiasi consesso – che ci si debba attenere alle decisioni della maggioranza. Non può, perciò, far finta di non capire. E non può far finta di non sapere che ovunque funziona così. Nel momento in cui lui e gli altri non hanno voluto riconoscere le decisioni prese dalla maggioranza si sono automaticamente messi fuori da soli dal Pd, nessuno li ha mandati via: questa è la verità. Non ce ne sono altre, e fanno male dunque a continuare a mestare nel torbido arrecando ancora più danni al centrosinistra, oltre che al Partito democratico.
Non è ammissibile utilizzare il partito a proprio piacimento. Non si può esserci quando fa comodo e non esserci quando subentra un interesse diverso. Non si può pensare di stare all’interno di un partito solo se si comanda, solo se ci si trova nelle condizioni di imporre la propria legge. E’ questo che ha fatto Serra ed è questo ciò che hanno fatto tutti coloro che l’hanno sostenuto ed incoraggiato. Al di là di ogni disquisizione di carattere ideologico, è in discussione il metodo, la lealtà delle persone, la loro capacità di essere appunto persone prima ancora che uomini politici. Anche perché, se si è sleali nel modo di comportarsi, non si può pensare di essere bravi politici.
Le liste della Asl che hanno candidato e sostenuto Francesco Serra in campagna elettorale sono state – ormai è evidente a tutti – le liste del potere. Coagulatesi attorno ad interessi specifici – carriere, promozioni, primariati e via dicendo – e cementate con la consapevolezza di avere dalla propria parte la Regione, l’ente da cui dipende la sanità. Eccolo il peccato originale di Serra e Panunzi e di tutti quelli che gli sono andati dietro: l’aver, più o meno apertamente, mischiato gli interessi personali con quelli pubblici, il lavoro con la politica. Ragione per cui sbagliano ad urlare e vomitare insulti come stanno facendo in questi giorni: la gente ha capito benissimo ciò che è successo.
Peraltro, nel momento in cui a Roma un politico della Regione, Michele Civita, finisce agli arresti per aver chiesto un posto di lavoro per il figlio (almeno così sembra), a Viterbo non ci si fa scrupoli ad andare a chiedere voti ai lavoratori della sanità sfruttando la posizione di forza che si ricopre. A prescindere dal reato o meno, c’è, chiara, una questione di opportunità sulla quale – forse Serra e Panunzi ancora non l’hanno capito – oggi più che mai si gioca la credibilità della politica e delle istituzioni.