di Giuseppe Fioroni
Anch’io condivido la preoccupazione di chi giudica i risultati dei ballottaggi come una conferma ulteriore di quanto la proposta del mondo riformista arranchi faticosamente. L’ombra del declino sembra espandersi oltre i confini, già ristretti in malo modo, delle elezioni del 4 marzo. Bisogna reagire con intelligenza.
Non è solo la crisi del Pd – un partito nato per unire e per dare stabilità al bipolarismo – a rendere complessa e allarmante l’analisi del voto. La destra si espande a macchia d’olio approfittando della convergenza con il mondo pentastellato.
In Ciociaria, ad Anagni, siamo giunti addirittura alla sfida tra centrodestra e CasaPound. Un fatto inimmaginabile fino a ieri. Quasi si potrebbe parlare di nuovo “schiaffo di Anagni”, immaginando che l’oltraggio, in questo caso, s’indirizzi alla coscienza democratica della nazione.
La situazione non è irrecuperabile. Se tornassimo indietro per un attimo, al primo turno di quindici giorni fa, avremmo motivo di soddisfazione per la bella vittoria di Del Bono a Brescia. Non era affatto scontato, in una città con il 17 per cento di immigrazione, far leva sul buon governo cittadino e piegare l’offensiva della destra salviniana. Eppure, malgrado i timori della vigilia, questo è avvenuto. Vuol dire, insomma, che esistono pur sempre le condizioni per affermare la vitalità di una politica democratica e popolare.
Ho citato Brescia come esempio particolarmente degno di nota. Altrove, come abbiamo visto, non è andata bene; abbiamo perso laddove, fidando sulla tradizione, non pensavamo di perdere. È segno che la tradizione, quando non incrocia la speranza e le attese della gente, declina facilmente; non salva pertanto dai rischi di declino.
Ora, se incombe la necessità di una risposta, non può essere comunque una risposta precipitosa, chissà perché risolutiva. Ovvero, tutte le conte in qualche modo lo sono, ma spesso, quando sono circondate di affanno e nervosismo, diventano risolutive in senso diametralmente opposto agli auspici. La chiarezza di linea politica è una costruzione che richiede l’impegno di un gruppo dirigente consapevole dei propri compiti. Invocare il congresso e le primarie, senza aver provato a disegnare una nuova strategia, equivale a imboccare una via di fuga dalle responsabilità.
Cosa debba essere in futuro il Pd, quali alleanze debba promuovere, con quali metodi e strumenti, adatti alle esigenze dei tempi, possa essere chiamato ad agire; ecco, tutto questo non si decide – per quanto sia scontato il fatto in sé – ridando la parola alla base. Si tratta piuttosto di rimettere mano all’aratro, disegnando il solco che possa identificare un nuovo percorso, così da rompere l’assedio del populismo.
La base conta, al di là delle convenzioni, se trova di fronte a sé uno schema politico. Altrimenti, nella confusione e nell’incertezza, si fa semplicemente specchio di ciò che un gruppo dirigente si limita a esprimere in termini di vacuo desiderio.
Siamo stati ossessionati per tanto tempo dai problemi della leadership. È questo, in astratto, ciò che vale? Ho i miei dubbi. In assenza di uno sforzo di elaborazione politica, a monte e a valle della definizione della leadership, ogni tentativo di riscatto è destinato all’insuccesso. Nessuno ci esonera dalla fatica che accompagna la ricostruzione di un programma convincente, in questo tempo dominato da forti tensioni emotive e scarsa propensione al dialogo, in grado di attirare il consenso di un ampio arco di forze democratiche, attente a raccogliere le sfide sul futuro del paese.