di Lucio Lamberti*
Con la riforma del sistema pensionistico e il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo gran parte dei giovani di oggi rischiano di non avere le risorse per la vecchiaia.
Nonostante ciò fa ancora molta fatica a far breccia l’uso delle forme complementari di previdenza, introdotte con la riforma del settore negli anni Novanta e le successive normative di assestamento e regolamentazione.
Quello della previdenza non e’ un problema solo italiano. Si parla sempre più di una crisi pensionistica globale alle porte.
Longevità della popolazione, bassa natalità e promesse passate troppo generose hanno creato un gap notevole nei sistemi pensionistici maggiori, compresi quelli anglosassoni. Uno studio recente effettuato su Australia, Canada, Cina, India, Giappone, Olanda, UK e USA proietta a 400 trilioni di dollari il gap complessivo tra risorse effettive e prestazioni attualizzate (con un tasso di crescita media del 5% nei prossimi 35 anni)
In parte i governi hanno cercato di correggere il tiro, incentivando forme individuali e collettive di previdenza che si aggiungono alle forme pubbliche. Nel 1994 la Banca Mondiale ha introdotto il concetto dei Tre pilastri pensionistici: previdenza pubblica coercitiva, previdenza complementare negoziale e previdenza complementare individuale facoltativa. La prima mira a garantire la sostenibilità sociale – ovvero la assicurazione del minimo vitale. La seconda a garantire il mantenimento della condizione di vita abituale, e quindi facoltativo e negoziale di categoria. Il terzo mira a facilitare le aspirazioni individuali di garanzia di un tenore di vita
In Italia INPS e Casse di Previdenza raccolgono contributi obbligatori e gestiscono il I pilastro. II e III pilastro sono realizzati mediante fondi di categoria negoziali, fondi pensione aperti, fondi pensione preesistenti alla riforma e piani pensionistici individuali. I fondi negoziali sono istituiti dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro nell’ambito della contrattazione nazionale, di settore o aziendale I Fondi pensione negoziali sono enti giuridicamente autonomi, distinti dai soggetti promotori (lavoratori e datori di lavoro) istituiti a seguito di contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori;
accordi tra i soci lavoratori di cooperative; accordi tra lavoratori autonomi e liberi professionisti promossi dai relativi sindacati o associazioni di categoria. Anche le Regioni, con Legge regionale, possono istituire un Fondo pensione negoziale.
I fondi aperti sono istituiti da banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio (SGR) e società di intermediazione mobiliare (SIM). Sono così definiti perché chiunque vi può aderire indipendentemente dalla propria situazione lavorativa (lavoratore dipendente, autonomo, libero professionista). Nei fondi pensione aperti il capitale versato dall’aderente viene separato dall’attività dell’istituto bancario o dell’ente che li gestisce.;
I Piani Individuali Pensionistici di tipo assicurativo (PIP) sono istituiti dalle imprese di assicurazione. I PIP, pur rimanendo a tutti gli effetti delle forme di pensione integrativa, sono dei contratti di assicurazione sulla vita, di ramo I (polizze tradizionali) o ramo III (cosiddette polizze Unit-linked) e sono istituiti esclusivamente da imprese assicurative. Al pari dei fondi pensione aperti, l’adesione è possibile per qualsiasi soggetto a prescindere dall’attività lavorativa svolta. Anche nei PIP il capitale versato dall’aderente costituisce un patrimonio separato dall’attività dell’impresa assicurativa che lo gestisce. Sia per i PIP che per i fondi aperti si tratta di un’importante tutela per gli aderenti, in quanto il risparmio versato rimane estraneo a qualsiasi vicenda debitoria o di fallimento del gestore.;
I fondi preesistenti sono quelli già presenti prima del Decreto Legislativo 124 del 1993 che ha disciplinato la previdenza complementare per la prima volta.
Come funziona la previdenza integrativa?
Aderendo alla previdenza integrativa il contribuente al termine della vita lavorativa può beneficiare di una sorta di “seconda pensione” come rendita aggiuntiva rispetto al trattamento pensionistico maturato. Secondo il decreto legislativo n. 252 del 2005 (articolo 2) possono aderirvi i lavoratori dipendenti (sia pubblici che privati), i soci e i dipendenti di società cooperative, gli autonomi e i liberi professionisti, le persone che svolgono lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari, i lavoratori occasionali.
Il dipendente aderisce alla previdenza complementare su base collettiva se previsto dal contratto di lavoro, o in maniera individuale attivando un fondo pensione aperto o a un PIP (nel primo caso il contributo deve essere versato anche dal datore di lavoro). Può aderire anche in modo tacito: se non esprime alcuna scelta sulla destinazione del proprio trattamento di fine rapporto (TFR) nei termini previsti dalla legge, viene iscritto automaticamente alla forma pensionistica collettiva adottata dal contratto nazionale di lavoro o dall’accordo aziendale.
Il lavoratore autonomo o libero professionista può aderire in forma individuale a un fondo pensione aperto o a un PIP.
Fondi aperti | PIP | Fondi chiusi | ||
Adesione individuale;
Adesione collettiva per lavoratori dipendenti del settore privato; |
Adesione individuale | Adesione collettiva | ||
Rendita
Quando vengono raggiunti i requisiti per la pensione obbligatoria, con almeno 5 anni di partecipazione alla previdenza complementare si può trasformare la propria posizione individuale in rendita: a versarla è l’impresa di assicurazione con cui la forma pensionistica è convenzionata. Durante la fase di contribuzione si può prelevare una somma della rendita, a titolo di anticipazione o di riscatto in relazione a determinate situazioni previste dalla legge e dal Fondo pensione.
Regime fiscale
Sulla previdenza complementare è intervenuta la Legge di Stabilità 2015 (Legge 23 dicembre 2014 n. 190, pubblicata sulla GU n. 300 del 29 dicembre 2014).
Il regime fiscale in caso di adesione alla previdenza complementare prevede:
imposta sostitutiva al 20% sul risultato netto maturato;
credito d’imposta del 9% del risultato maturato a netto dell’imposta dovuta, a patto che un ammontare corrispondente venga investito in attività finanziarie;
deducibilità IRPEF fino a 5.164,57 euro l’anno (limite di contributi versati), compreso eventuale contributo del datore di lavoro e versamenti per soggetti a carico. Esclusa la quota del TFR.
Flessibilità , Trasferibilità e Reversibilità
Il Piano Pensionistico Individuale è uno strumento previdenziale connotato da una particolare flessibilità: la possibilità di modificare o interrompere i versamenti nel tempo senza dover incorrere in penale. È la caratteristica che lo distingue dagli altri fondi pensione aperti.
Decorsi 2 anni dall’adesione, si può chiedere per qualsiasi ragione il trasferimento della propria posizione presso un’altra forma pensionistica complementare.
Il Pip può diventare uno strumento pensionistico completamente reversibile. In caso di decesso prima dell’età pensionabile, infatti, quanto versato può essere interamente riscattato dagli eredi. Così, raggiunta l’età pensionabile, si può decide una forma di erogazione che garantisce una garanzia nei confronti degli eredi.
Il riscatto anticipato
Come detto, per godere di quanto accumulato attraverso un Pip, bisogna raggiungere l’età pensionabile. Esistono alcuni casi, però, nel quale è possibile recedere dall’investimento pensionistico in anticipo:
Nel caso di gravi situazione di salute proprie o dei propri familiari, è possibile ritirare fino al 75% di quanto maturato.
Dopo 8 anni di investimento, invece, si può richiedere l’anticipo del 75% in caso di necessità di acquisto o di ristrutturazione della prima casa. Sempre dopo 8 anni si può invece richiedere il 30% dell’ammontare versato senza bisogno di fornire ulteriori giustificazioni.
E possibile invece riscattare completamente il Piano individuale pensionistico in caso di morte del lavoratore in favore degli eredi, invalidità che riduca le capacità lavorative, prolungato periodo di disoccupazione. Nei casi di riscatto e nel caso di anticipo per motivi di salute la tassazione è del 15% con la possibilità di ridurre al 9% dopo 35 anni di investimento, mentre negli altri casi di anticipo la tassazione è al 21%.
Sebbene siano stati concepiti come uno strumento flessibile e agevolato, soprattutto dopo la riforma Maroni, il II e III pilastro faticano a decollare, con particolare riferimento nel Sud e tra i giovani.
Ancora oggi meno di 3 lavoratori su 10 aderiscono alle forme di previdenza complementari.
Ancora oggi meno di 3 lavoratori su 10 aderiscono alle forme di previdenza complementari. Dovrebbero aderire soprattutto i giovani, essendo il sistema attuale contributivo per la parte pubblica del I pilastro penalizzante. Tuttavia la età media è superiore ai 40 anni e il tasso di adesione per gli aderenti con età inferiore ai 35 anni è inferiore al 20%. Risulta inoltre particolarmente basso nel CentroSud.
Risulta evidente quindi che le forme attuali di incentivazione e pubblicità hanno avuto una capacità ridotta di cambiamento delle abitudini di protezione. Nonostante i rendimenti dei fondi pensione e del Piani pensionistici siano stati tuttaltro che negativi dal 2012.
Occorrerebbe in primo luogo una sensibilizzazione maggiore sulle necessità di protezione verso i giovani raccontando loro i rischi futuri in modo crudo. I Il metodo contributivo ha irrigidito il funzionamento del sistema pensionistico: lo ha ancorato alla logica dell’equilibrio attuariale, ma a discapito dell’equità previdenziale. Il contributivo a differenza del vecchio metodo retributivo si basa non sulla retribuzione media dell’ultimo quinquennio e dell’ultimo decennio ma sulla contribuzione effettivamente versata durante la vita lavorativa, rivalutata tramite coefficienti. La realtà lavorativa attuale è fatta di lavori precari e di una capacità contributiva bassa e saltuaria. Le generazioni che sono entrate nel mercato del lavoro dopo il 1996, quando è stato introdotto il sistema contributivo e hanno iniziato a diffondersi i contratti atipici, hanno già vissuto fin quasi la metà della loro vita attiva. Se nella rimanente parte replicheranno la stessa esperienza riguardante l’incidenza dei periodi d’occupazione e il livello delle retribuzioni e delle contribuzioni, una larga parte di loro, dopo aver avuto salari inferiori alla soglia di povertà relativa, maturerà una pensione corrispondentemente povera.
Consideriamo ad esempio un lavoratore entrato nel mercato del lavoro a 24 anni nel 1996, dunque pienamente inserito nel nuovo sistema contributivo. Ipotizzando una retribuzione iniziale lorda di 15.000 euro nel 1996 (circa 23.000 euro a prezzi correnti), con 34 anni contributivi, l’ammontare della pensione sarebbe pari a 1010 euro mensili. Se poi il lavoratore considerato avesse un contratto costantemente part-time o di lavoro parasubordinato (che prevede aliquote contributive più basse fino al 2018), con un salario iniziale di 10.000 euro nel 1996, accumulando 34 anni di contributi, la pensione a 69 anni sarebbe pari a 1,15 volte l’assegno sociale (521 euro nel 2018). Tutti importi non sostenibili.
La solidarietà generazionale passa quindi anche per il regalo di un piano pensionistico complementare in ambito familiare o il sostegno nelle fasi di basso reddito.
Il legislatore infine deve ampliare le fasce di incentivo sia per il datore di lavoro che per il dipendente per la adozione di comportamenti pensionistici adeguati.
Il rischio altrimenti è di innescare una ennesima bomba sociale.
Lucio Lamberti
*docente scienza delle finanze, Università San Raffaele Roma