di Lucio Lamberti*
L’Italiano è ancora un popolo di risparmiatori. Basta scorrere i dati del “Rapporto 2017 sulle scelte di investimento delle famiglie italiane” della Consob e i vari report della Banca d’Italia sulla ricchezza degli italiani.
Molta della ricchezza è ancora in investimenti illiquidi come gli immobili (le famiglie detengono oltre il 90% del patrimonio residenziale complessivo, e nel 2016 l’80% degli italiani viveva in casa di proprietà) nonostante la perdita di valore sia una costante da alcuni anni: il valore delle case ha conosciuto la sua fase espansiva più rapida fra il 2001 e il 2008 con un incremento medio annuo del 9%; dopo l’arrivo della crisi finanziaria i prezzi sono comunque aumentati anche se a ritmo più contenuto (+1,6% in media d’anno), fino al 2011. A partire dal 2012 il valore della ricchezza abitativa degli italiani scenderà, in media, dell’1,7% ogni anno.
La ricchezza finanziaria? Secondo i dati pubblicati da Banca d’Italia la ricchezza finanziaria degli italiani ammonta a circa 4mila miliardi di euro, due volte e mezzo il Pil. Negli ultimi anni la ricchezza finanziaria pro capite è aumentata, nonostante la crisi e la bassa crescita. Lo avvertiamo poco perché la ricchezza incrementale tende a concentrarsi sempre più in poche fasce di risparmiatori, generalmente di età avanzata.
Ma l’Italiano resta prudente nonostante questo lo penalizzi. Dall’inizio della crisi viviamo in un ambiente finanziario artefatto, con rendimenti sui depositi in conto corrente nulli e rendimenti a scadenza (per il cassettista) sui titoli di stato addirittura negativi, Un ambiente destinato ancora a perdurare per un periodo lungo.
Nonostante ciò la quota di depositi resta straordinariamente alta. Per molti il titolo di stato resta inoltre l’investimento preferito, a volte unico. Ma le sorprese anche in questo caso sono tristi. Molta parte dei titoli che abbiamo in portafoglio sono oggi a rendimenti negativi a scadenza: in altri termini aspettare significa al termine dell’investimento ricevere meno di quanto si e’ investito.
Ecco alcuni esempi:
Il primo consiglio e’ quindi rivedere i propri conti titoli, e magari cercare di farsi dare dal nostro intermediario qualche dato di sintesi: quale scadenza media, quale rendimento effettivo a scadenza se aspetto, quale rischio di credito sto correndo?
La risposta in questi mesi sarà molto deludente: rendimenti bassi o negativi, durate lunghe e magari tanta concentrazione nel rischio credito.
Potremmo chiederci come mai l’investitore resta ancorato a investimenti cosi’ deludenti. La risposta è semplice: nelle indagini recenti Consob emerge chiaramente un problema di cultura finanziaria e fiducia. Circa la metà degli intervistati, in particolare i risparmiatori con conoscenze finanziarie più limitate, dichiara di provare “ansia” quando sta per sottoscrivere un prodotto finanziario. Molti non si sentono tutelati nel rapporto con le istituzioni finanziari.
Del resto i rendimenti elevati in termini nominali (e reali) dei titoli di stato in passato avevano abituato fin troppo bene l’investitore prudente. Non aveva senso rischiare, diversificare troppo, avventurarsi in discorsi strani se in fondo era disponibile un titolo del proprio stato che rendeva bene, era avvantaggiato fiscalmente, e efficiente in caso di successione. E gli scandali finanziari non hanno favorito di certo la ricerca in altri ambiti. Ma oggi viviamo in un contesto completamente diverso e siamo costretti a cambiare approccio per evitare di perdere valore.
Il fai da te e l’investimento diretto in titoli alternativi non e’ sempre la soluzione migliore. Investire in singole azioni, soprattutto se di società in forte espansione, è più simile al gioco d’azzardo che non all’investimento. Mentre alcune società high tech del 2000 sono fallite o, nel migliore dei casi, hanno bruciato gran parte del proprio valore, l’indice rappresentativo di categoria, il NASDAQ, ha segnato nuovi massimi.
Non è un caso che ci sia un crescente ricorso a promotori e consulenti finanziari: poca fiducia nelle istituzioni e un ambiente finanziario a dir poco ostile aumentano il bisogno di professionisti credibili e gestori di successo.
Navigare in attivi diversi in modo diversificato, avendo presente le proprie aspirazioni e esigenze di controllo del rischio, significa nella maggior parte dei casi farsi guidare verso prodotti di delega collettiva come i fondi comuni.
Nelle gestioni collettive sono oggi presenti oltre 2000 miliardi, di cui il 51% circa in quote di OICR, la quota restante in gestioni di portafoglio. Solo nel primo trimestre di quest’anno la raccolta netta è stata di oltre 12 miliardi di Euro. Il 97% dei fondi sono in investimenti diversificati a medio/lungo termine, di cui parte significativa è in temi globali.
E’ un processo lento di professionalizzazione e diversificazione in cui dobbiamo essere attori attivi. Quando si tratta di investire i propri risparmi è importante sapere come funzionano gli strumenti scelti, avendo ben chiari rischi e opportunità e scegliere consulenti che sappiano interpretare i nostri bisogni nel lungo termine. Non sempre questo significa guadagnare il massimo, ma rischiare il giusto.
Diversificare non significa scegliere solo gli investimenti che andranno bene. In economia finanziaria, la diversificazione di un portafoglio di titoli consiste in una riduzione della rischiosità del suo rendimento, grazie alla presenza di più attività finanziarie, i cui rendimenti non sono perfettamente correlati. In pratica, si opera sul portafoglio, aggiungendovi una vasta gamma di titoli con scadenza diversa che consentono di frazionare il rischio complessivo dell’operazione. Questo consente agli intermediari di prevedere con maggiore precisione l’esito dell’investimento, quindi valutarne rischio e rendimento, così da mantenere le promesse fatte ai fornitori di fondi.
Non dovremo quindi chiedere al consulente di cambiare continuamente allocazione dei fondi per la moda del momento, ma di conoscerci bene e avere un atteggiamento professione di pianificazione complessiva.
Questo vale per tutte le classi di attivo. Si pensi alla diversificazione valutaria, ovvero in titoli denominati in altre divise. Mai come oggi ha senso avere una quota in altre aree valutarie, come ad esempio il dollaro. Rendimenti un po’ piu’ alti, e magari la possibilità di un rendimento aggiuntivo in caso di andamento valutario a favore.
A pesare sul cambio Euro Dollaro sono vari fattori: la situazione economica delle rispettive aree, la forza finanziaria delle rispettive economie, le politiche monetarie impostate da entrambe le parti, i tassi di interesse e le possibili instabilità economiche.Tutti questi fattori sembrano essere positivi per una diversificazione valutaria stabile in portafoglio. A patto di non farsi prendere da nervosismi eccessivi derivanti dalle oscillazioni di breve, o da seguire troppo il consenso, ma di introdurre tale componente in modo stabile. Seguire il consenso, lasciarsi influenzare troppo dalle isterie del mercato puo’ essere molto pericoloso.
Nella realtà abbiamo avuto molti comportamenti estremi. A marzo dello scorso anno il consenso era per un dollaro talmente forte da rivalutarsi ben oltre la parità verso euro e dopo Macron e le elezioni francesi la dinamica e’ stata opposta con una rivalutazione dell’euro di oltre il 15% (1,25 a marzo 2018). A inizio di quest’anno il consenso sui mercati era per una prosecuzione del trend molto impetuosa. Ad oggi siamo tornati verso 1.19 (5% di rivalutazione del dollaro dai minimi).
In generale una quota contenuta di divisa permette di diversificare in modo più efficace i propri investimenti e alla lunga è un fattore positivo.
Dobbiamo inoltre dare tempo agli investimenti di realizzare le proprie potenzialità, soprattutto quando si parla di investimenti rischiosi come quelli azionari.
Il grafico evidenzia i rendimenti medi annui composti di un investimento fatto sull’indice MSCI World in euro (dal 1998 al 2017)
All’aumentare del tempo di detenzione dell’investimento il rendimento medio annuo minimo e massimo tendono ad avvicinarsi, rendendo di fatto meno rischiosa la detenzione di azioni. Resta il rischio ma si riduce molto. A dieci anni il risultato sarebbe stato negativo (di poco) solo se fossimo entrati a marzo del 1999 e usciti a marzo 2009 (ai minimi dopo la crisi finanziaria). Per investimenti superiori ai 15 anni le azioni hanno sempre offerto rendimenti positivi. Nel periodo considerato, attraversato da ben due crisi gravi, le azioni sono state i migliori investimenti a lungo termine, a patto di avere evitato i pesanti crolli del 2000-2002 e del 2007-2009.
Lucio Lamberti
*docente scienza delle finanze, Università San Raffaele Roma